lunedì 8 ottobre 2012

Aita

Oggettino da Festival, e infatti è stato presentato per la prima volta a quello di San Sebastián, Aita (2010) è un film basco diretto da un tale di nome José María de Orbe. L’intera pellicola è ambientata in una villa disabitata e riprende la quotidianità del suo custode interrotta di tanto in tanto da alcuni dialoghi dal retrogusto filosofico con il prete della vicina cappella.

La recensione di Indie-eye (link) fornisce delle informazioni interessanti a riguardo del lungometraggio: innanzitutto pare che il villone sia stato ereditato dal regista stesso, inoltre la storia, difficilmente decrittabile, contiene a detta dell’autore riferimenti personali di cui lo spettatore nulla può sapere, vieppiù che i frammenti proiettati sui muri della casa ritraenti uomini donne e bambini di inizio ‘900 sono lì semplicemente perché… interessavano a de Orbe.
Ciò che resta di Aita al di là di questi elementi è un lavoro che mi ha ricordato molto i film di Lisandro Alonso: la camera fissa, il silenzio, le luci naturali e il custode che vaga per le stanze impolverate, sono le uniche componenti dell’opera. Il precipitato è dunque parecchio scarno e con ogni probabilità sintonizzarsi sul piano dei significati non è granché conveniente perché non si caverebbe un ragno dal buco. Meglio allora subire passivamente le immagini e prendere atto di quello che si sente: c’è una membrana di inquietudine che a volte vibra lievemente (difatti alcune recensioni in Rete parlano del film come di una variazione sul tema delle case infestate) e suggerisce uno stato di ovattata ansietà che porta alla percezione di un qualcosa che invece non accadrà mai (i bambini e i vandali che esplorano la casa ma che beffardamente dicono “qui non c’è niente”). Attento in qualche modo alla dicotomia luce/buio, il regista registra i due estremi come si faceva una volta sulle musicassette e ne propone il risultato che in alcuni passaggi si abbassa di fedeltà video e che, come carico aggiuntivo, diventa davvero straniante quando proietta quelle vecchie immagini che catturano i fantasmi del passato, o forse i fantasmi del cinema.
Bella la sequenza che porta il vecchio custode sul pulpito della chiesa e altrettanto notevole una delle ultime inquadrature che plasma da sé un cerchio dall’incerta morfologia: è un pozzo? È un occhio? È quel bagliore che perseguita il protagonista?

Film in stretta sintesi molto particolare che a causa della sua costanza contemplativa può essere digerito soltanto da pochi coraggiosi cinefili. Le parti in ombra sono decisamente di più rispetto a quelle al sole (e non parlo di difetti ma di “oscurità” nell’accedere alla fruizione), però qua e là ci sono piccoli flash che nobilitano il risultato globale, ed è anche da piccolezze del genere (i flash) che si comprende, con un non so che di confortante, di come il cinema, in fondo, non sia altro che Luce.

6 commenti:

  1. Guarda caso, visto proprio poche sere fa. Di solito quando termino la visione di un film vado subito a caccia di qualche commento, ora, trovando la tua recensione, mi sono ricordato di non essermi segnato ancora niente su Aita. Messaggi telepatici lanciati dal profondo della villa? :D
    Comunque il film l'ho apprezzato parecchio, si respira un gusto retrò, quasi da ghost-story di un tempo, ma trasportata e inglobata nell'era del moderno cinema contemplativo. Ottima segnalazione!

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  2. Credevo di essere l'unico essere umano nel raggio di un anno luce ad aver visto Aita, meglio così! Ti dirò, il film è per palati avvezzi ad un certo tipo di cinema, io, che l'ho visto qualche mese fa, ne conservo comunque un ricordo positivo.

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  3. questo potrebbe essere pane per i miei denti, gran recensione; unico cruccio: si trova da qualche parte per poterlo visionare?

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