Un padre segrega in casa la propria moglie e i suoi tre figli.
Se dalla breve sinossi de El castillo de la pureza (1973) vi è venuta in mente un’opera significativamente attuale come Dogtooth (2009), beh, siete sulla strada giusta. Anche se non ho trovato conferme ufficiali, vari rumors sul web sostengono che Lanthimos si sia davvero ispirato a questo film messicano diretto dal prolifico Arturo Ripstein.
In effetti l’idea di base, un padre che rigetta il mondo esterno e recinta la vita dei suoi famigliari nell’ambiente casalingo, ricorda la produzione greca, ma direi che le assonanze non vanno oltre questo aspetto.
Qui siamo di fronte ad una relazione patriarcale a cui è assoggettata anche la moglie, lasciando perciò il solo padre alle prese con le sue fobie. Lungi da me voler confrontare due pellicole così lontane temporalmente, ma è opinione di chi scrive che questo film difetti nel coinvolgimento poiché delinea in modo netto le vittime, le quali, aspetto importantissimo, capiscono di essere tali. Se in Kynodontas l’educazione deformante aveva fatto sì che i figli divenissero inconsapevoli della loro condizione, i ragazzi di Ripstein cercano invece di reagire fin da subito, vogliono vedere cosa c’è al di là del portone, tentano di soverchiare l’autorità del padre, ed è emblematico che l’episodio incestuoso tra i due fratelli sia il risultato di una “rivolta” e non di un obbligo imposto dall’alto.
L’attore Claudio Brook non riesce a dare quella cattiveria giusta che occorrerebbe al suo ruolo, piuttosto è il regista a suggerircene il credo con la fabbricazione del veleno per topi, poi rivenduto all’esterno, che è figlia dell’opinione propria del mondo: uomini = ratti, e la sua casa che tenta di celare da ciò che è altro si rivela rapidamente un traballante castello di carte. Direi che il nocciolo della questione è racchiuso in questo concetto, ossia che la ricerca del candore e della purezza non può avvenire tramite divieti e prepotenze. Precipitato un po’ prevedibile a cui si affianca un gratuito accanimento maschilista fatto di tradimenti e accuse ingiuste ai danni dell’incolpevole moglie.
Ripstein, comunque, cerca svincoli d’autore con quella pioggia incessante e imperturbabile che precipita continuamente sul set e che non riesce a ripulire tutta la malvagità, anzi, alla fine, nella discreta conclusione giocata sul filo dell’equivoco, è la disperazione verso il genitore arrestato il sentimento più diffuso da parte della prole.
Al tempo, forse, un buon film, oggidì accusa i quasi quarant’anni sul groppone.
Se dalla breve sinossi de El castillo de la pureza (1973) vi è venuta in mente un’opera significativamente attuale come Dogtooth (2009), beh, siete sulla strada giusta. Anche se non ho trovato conferme ufficiali, vari rumors sul web sostengono che Lanthimos si sia davvero ispirato a questo film messicano diretto dal prolifico Arturo Ripstein.
In effetti l’idea di base, un padre che rigetta il mondo esterno e recinta la vita dei suoi famigliari nell’ambiente casalingo, ricorda la produzione greca, ma direi che le assonanze non vanno oltre questo aspetto.
Qui siamo di fronte ad una relazione patriarcale a cui è assoggettata anche la moglie, lasciando perciò il solo padre alle prese con le sue fobie. Lungi da me voler confrontare due pellicole così lontane temporalmente, ma è opinione di chi scrive che questo film difetti nel coinvolgimento poiché delinea in modo netto le vittime, le quali, aspetto importantissimo, capiscono di essere tali. Se in Kynodontas l’educazione deformante aveva fatto sì che i figli divenissero inconsapevoli della loro condizione, i ragazzi di Ripstein cercano invece di reagire fin da subito, vogliono vedere cosa c’è al di là del portone, tentano di soverchiare l’autorità del padre, ed è emblematico che l’episodio incestuoso tra i due fratelli sia il risultato di una “rivolta” e non di un obbligo imposto dall’alto.
L’attore Claudio Brook non riesce a dare quella cattiveria giusta che occorrerebbe al suo ruolo, piuttosto è il regista a suggerircene il credo con la fabbricazione del veleno per topi, poi rivenduto all’esterno, che è figlia dell’opinione propria del mondo: uomini = ratti, e la sua casa che tenta di celare da ciò che è altro si rivela rapidamente un traballante castello di carte. Direi che il nocciolo della questione è racchiuso in questo concetto, ossia che la ricerca del candore e della purezza non può avvenire tramite divieti e prepotenze. Precipitato un po’ prevedibile a cui si affianca un gratuito accanimento maschilista fatto di tradimenti e accuse ingiuste ai danni dell’incolpevole moglie.
Ripstein, comunque, cerca svincoli d’autore con quella pioggia incessante e imperturbabile che precipita continuamente sul set e che non riesce a ripulire tutta la malvagità, anzi, alla fine, nella discreta conclusione giocata sul filo dell’equivoco, è la disperazione verso il genitore arrestato il sentimento più diffuso da parte della prole.
Al tempo, forse, un buon film, oggidì accusa i quasi quarant’anni sul groppone.
"la ricerca del candore e della purezza non può avvenire tramite divieti e prepotenze" verissimo.
RispondiEliminaDopo aver letto del tuo paragone con Dogtooth per un attimo ho sperato che fosse su quei livelli. Grazie comunque, lo vedrò anche soltanto per la sua tematica. Grazie
Qui c'è il film completo se vuoi farti un'idea (senza sottotitoli): http://www.youtube.com/watch?v=aUtSxSc4ZDo.
RispondiEliminaLa citazione a Kynodontas era d'obbligo, ma il greco è film inevitabilmente più moderno.
L'ho visto anch'io Kynodontas, bello.
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