martedì 24 novembre 2009

Il nastro bianco

Uscito dalla sala mi ero promesso di non scrivere nulla su questo film.
Spaesamento e delusione: questi erano i sentimenti dominanti. Spaesato perché la mancanza di punti di riferimento è una costante nel cinema hanekiano, ma ‘sta volta anche un po’ deluso perché da Il nastro bianco mi aspettavo qualcosa di differente, non saprei dire precisamente che cosa, ma sicuramente non questo; forse tale scoramento derivava dall’hype che si era notevolmente amplificato con la vittoria di Cannes, e perciò sedendomi sui seggiolini pensavo di andare incontro ad un film sconvolgente quanto e più di Funny Games (1997): mi sbagliavo.
In breve: non mi aspettavo che Il nastro bianco fosse un film così.
E quindi ero fermamente deciso a non scrivere nulla poiché, detto in soldoni, non avrei saputo da dove iniziare.
Poi mi sono venute in mente le parole di un mio professore il quale ci diceva sempre che il vero studio inizia solo quando viene chiuso il libro. Così rientrando a casa ho iniziato a pensare al film, e l’ho fatto anche nei giorni successivi in cui l’eco di Das weisse Band si è diffusa sempre più nella mia testa, facendo sì che io assistessi due volte alla proiezione: una in sala ed una nel mio cervello. Se un film ha il potere di insinuarsi nella mente anche giorni dopo la sua visione significa che ha fatto il suo dovere. E quello scoramento che mi pervadeva all’uscita del cinema si è trasformato pian piano in entusiasmo. Avevo bisogno di metabolizzarlo, digerirlo, assimilarlo: assorbirlo. Solo dopo questo lento passaggio si può penetrare nella diabolica struttura dell’opera.
Una struttura in cui si avvertono gli strascichi dell’ultimo vero lavoro di Haneke: Niente da nascondere (2005). In questi due film l’attenzione non è focalizzata sul colpevole ma sulle dinamiche relazionali pre e post-crimine. Non rivelare l’identità di un assassino capisco che possa essere un colpo basso ai danni dello spettatore, ma ridurre un film di Haneke ad un banale gialletto sarebbe pericolosamente riduttivo e significherebbe mortificare letteralmente il lavoro di un regista che fin da The Seventh Continent (1989) “veste” i suoi film di un abito che in realtà cela significati ben più complessi di quanto lo sono in apparenza.
Rispetto a Caché la mole di materiale umano è maggiore, ed ogni personaggio, dal barone al contadino strabico, ha una caratterizzazione eccellente dovuta anche e soprattutto alla ricostruzione minuziosa che è stata fatta dell’ambiente rurale. La scelta del bianco e nero così perfetto, così lucido, fa da contrasto agli orrendi avvenimenti nella storia. Molti film attuali tendono ad enfatizzare le scene più crude con riprese nel dettaglio, montaggi frenetici e musiche ossessive; Haneke ha una visione totalmente differente della violenza, e ne Il nastro bianco, come in tutti i suoi film, continua a suggerire il male sussurrandolo senza alcun proclamo.

Chi ha teso quella corda? Come è morta la contadina nella segheria? Chi ha violentato il figlio del barone? Chi ha dato fuoco al granaio? Chi ha torturato il piccolo Karli?
Una delle chiavi di lettura adottata da molte recensioni è quella che vorrebbe vedere nel villaggio protestante la culla del nazismo, un’incubatrice della repressione, del sopruso, della violenza. La faccenda può essere interpretata anche così, senza dubbio, ma lo sguardo incolore di Haneke getta ombre che superano cronologicamente le due guerre per insediarsi nei giorni nostri, coprendo un arco temporale che racchiude in sé tutti quei tempi e luoghi in cui il nichilismo ha sopraffatto l’umanesimo. La mentalità nichilista, ormai innestata in maniera capillare nella società moderna, pervade condotte, sentimenti relazioni e azioni. Fanatismo, fondamentalismo e terrorismo sono alcune delle forme estreme di un nichlismo che penetra nella quotidianità annullando l’uomo: dalle banlieu alle bidonville, da Scampia allo ZEN di Palermo, dai lager ai gulag, dalla strage di Beslan al massacro di My Lai, dietro tutto ciò c’è sempre stato un piccolo paese in cui qualcuno ha teso una corda facendo inciampare un cavallo, oppure che ha violentato un bimbo o che ha quasi accecato un handicappato.

Ma chi è stato, allora, a commettere questi crimini? I bambini? Il dottore? Il pastore?
Haneke non ce lo dirà mai. La risposta è dentro di noi, ma dobbiamo fare in fretta a trovarla per non venire inghiottiti da quelle tenebre minacciose che calano nel finale.

10 commenti:

  1. "La risposta è dentro di noi"
    si! Questo film anche se si discosta completamente dai film precedenti di Haneke credo che alla fine riassuma la sua visione del cinema in maniera perfetta. Tutto ciò che tenta ad avvicinarsi all'intimità provoca nello spettatore un disagio insopportabile o comunque risveglia in un lui un grave senso di colpa. Mi viene in mente la sequenza del bambino in cui viene accusato di onanismo, dove il dialogo del pastore si trasforma in una lametta che vuole penetrare nei segreti più intimi dell'essere umano e sdradicarli (è qui che inizia il processo di disumanizzazione), ma anche la sequenza in cui il bambino del dottore sorprende suo padre e sua sorella nello studio, in quel pianosequenza anche se fisicamente non è assolutamente dimostrabile, l'atmosfera angosciante, notturna, spaesante, forzata dalle giustificazioni della sorella, affatto consolatorie, ci lascia perversamente immaginare se la volontà del dottore di rimanere di spalle al bambino sia legata al fatto di voler nascondere la cerniera dei pantaloni che non ha fatto in tempo a chiudere dopo aver abusato della figlia.
    Ecco non so se io "sono malato", di fatto Haneke pur non intenzionalmente, evoca questo lato oscuro che vive dentro noi stessi e lo mette in luce, ed è l'unico regista che è capace di farlo in maniera così limpida senza la pretesa di giungere a un'unica interpretazione plausibile.

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  2. Bella chiave di lettura.
    Non so se sia questione di "essere malati" o meno (capisco cosa intendi per malattia), ma Haneke non è la cura, al massimo la diagnosi. La sua analisi dell'essere umano è così precisa e angosciante da far invidia ai filosofi del sospetto dai quali attinge. Il bello è che le conclusioni le traiamo noi, siamo stimolati a pensarci forse perché come dici tu tutto ciò risveglia in noi un senso di colpa...

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  3. sai, per certi versi ricorda Lynch, per la capacità di sottintendere sensazioni nel non detto o nel delirio delle immagini.
    Si sono d'accordo sulla "diagnosi" che probabilmente si riferisce alla mia misantropia. ahah Anche se comunque credo sia normale avere questi sospetti nel rispetto di quello che sappiamo del dottore nel film.
    Comunque al di là della chiave di lettura, l'importante è suscitarla che è una cosa difficilissima soprattutto arrivare alla parte subcosciente dello spettatore. Si Haneke è un genio.

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  4. Forse Lynch essendo più onirico lascia ampio spazio all'interpretazione soggetiva. Spesso in un suo film la gente ci vede un po' quello che vuole. Anche con Haneke si deve compiere un notevole sforzo ermeneutico e alla fine ci si pone più domande delle risposte ricevute, ma l'argomento è più circostanziato, più diretto, pur essendo sempre e comunque sotterrato, sta a noi scavare sotto le immagini.

    Sì concordo sulla genialità di Haneke, tra l'altro se tu vedessi il suo primo film (magari l'hai visto), Il settimo continente, ti renderesti conto di come già nell'89 il suo stile fosse ficcante come lo è adesso a 20 anni di distanza. Fra le altre cose il suddetto film ha un finale che è a dir poco scioccante.

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  5. La trilogia della glaciazione non l'ho ancora vista, ma ci sto lavorando :)

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  6. oggi ho trovato questa intervista di Haneke che parla un pò del suo cinema:
    http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=78546&sez=HOME_CINEMA

    quest'uomo lo amo! :)

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  7. una delusione completa.
    "Niente da nascondere" mi era piaciuto moltissimo, ma qui mi sembra che ci siano delle cose, ma manchi il film, ecco forse è un abbozzo di film, non sapeva come farlo, l'ha lasciato così, "tanto", avrà pensato, "tutti diranno che è un film di Haneke e tutti diranno che cosa volevo dire".

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  8. "tutti diranno che è un film di Haneke e tutti diranno che cosa volevo dire".

    Eh eh eh, non credo sia così, comunque massimo respect per il tuo pensiero. Le tue sensazioni erano le mie appena uscito dalla sala, poi rimuginandoci sopra le ho completamente sovvertite.

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  9. Ho appena finito di vederlo e mi pongo una domanda banale... Il figlio della levatrice che fine può aver fatto??? Ho perso qualche passaggio per caso?

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  10. Mo' non mi ricordo chi era il figlio della levatrice. Karli? Comunque, molto probabilmente, non ti sei perso nessun passaggio, è che nel Nastro bianco le domande superano le risposte.

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