Cosa accadrebbe se una volta morte le persone della terra si ritrovassero ospiti per una settimana in un vecchio palazzo dove una squadra di consiglieri ha il compito di ricostruire attraverso un set cinematografico il ricordo più bello della loro vita che sarà anche l’unico che potranno portare nell’aldilà?
Da tale malinconico assunto parte questo film del 1998 diretto dal regista giapponese Hirokazu Koreeda. Un film che ha in sé molte delle peculiarità tipiche orientali; un’opera strana, in bilico fra spiritualità ed umanesimo.
In due ore di girato, la prima, almeno, è costituita più o meno esclusivamente dalle testimonianze delle varie persone che raccontano il proprio Ricordo; la camera è fissa su di loro mentre fuori campo si sente la voce di un membro dell’equipe che fa delle domande. Tutto come se fosse un’intervista documentaristica. È strano, appunto.
Il lato più toccante di questi essere umani è la loro serenità nell’accettare la morte: non c’è (quasi mai) il rimpianto della vita, nessuno di loro dà in escandescenza, anzi sono felici nel momento in cui riescono a rivivere il loro amato Ricordo.
Tra tutti i "clienti" si segnala un’adorabile vecchietta che sembra uscita da una manga, ed un triste settantenne che ha scelto… di non scegliere un ricordo. Gli altri "morti" si confondono sullo sfondo, un po’ per le loro storie poco intriganti, un po’ per il taglio da documentario che li vede sempre e solo dialogare con uno dei consiglieri divenendo così impossibile creare un legame empatico con loro.
Nella seconda ora si innestano nella trama principale le vicende di due consiglieri che lavorano nel palazzo: Shiori e Arata. Il loro progressivo ingresso non si amalgama granché all’interno del tessuto narrativo a causa della sopraccitata onnipresenza dei clienti sullo schermo. E così anche il finale risulta debole. Ma solo nella forma. Sì perché se gli elementi negativi da me evidenziati permangono, non posso non sottolineare la profonda riflessione compiuta dal regista con questo film.
Laddove After Life è "piccolo": nella sua messa in scena, nella mancanza di musiche e luci artificiali, si fa "grande" nella metafora rivelando la sua natura intima. C’è il mistero dell’uomo di fronte alla morte e alla vita, e l’inafferrabile Ricordo che diventa eterno grazie al cinema; d’altronde per ricreare quel preciso istante c’è bisogno della pellicola, solo tramite essa la memoria potrà conservare quel Ricordo. Il cinema che supera la morte donando una parvenza di vita. Mi piace.
Sospendo il giudizio, mai come questa volta c’è bisogno del vostro.
Da tale malinconico assunto parte questo film del 1998 diretto dal regista giapponese Hirokazu Koreeda. Un film che ha in sé molte delle peculiarità tipiche orientali; un’opera strana, in bilico fra spiritualità ed umanesimo.
In due ore di girato, la prima, almeno, è costituita più o meno esclusivamente dalle testimonianze delle varie persone che raccontano il proprio Ricordo; la camera è fissa su di loro mentre fuori campo si sente la voce di un membro dell’equipe che fa delle domande. Tutto come se fosse un’intervista documentaristica. È strano, appunto.
Il lato più toccante di questi essere umani è la loro serenità nell’accettare la morte: non c’è (quasi mai) il rimpianto della vita, nessuno di loro dà in escandescenza, anzi sono felici nel momento in cui riescono a rivivere il loro amato Ricordo.
Tra tutti i "clienti" si segnala un’adorabile vecchietta che sembra uscita da una manga, ed un triste settantenne che ha scelto… di non scegliere un ricordo. Gli altri "morti" si confondono sullo sfondo, un po’ per le loro storie poco intriganti, un po’ per il taglio da documentario che li vede sempre e solo dialogare con uno dei consiglieri divenendo così impossibile creare un legame empatico con loro.
Nella seconda ora si innestano nella trama principale le vicende di due consiglieri che lavorano nel palazzo: Shiori e Arata. Il loro progressivo ingresso non si amalgama granché all’interno del tessuto narrativo a causa della sopraccitata onnipresenza dei clienti sullo schermo. E così anche il finale risulta debole. Ma solo nella forma. Sì perché se gli elementi negativi da me evidenziati permangono, non posso non sottolineare la profonda riflessione compiuta dal regista con questo film.
Laddove After Life è "piccolo": nella sua messa in scena, nella mancanza di musiche e luci artificiali, si fa "grande" nella metafora rivelando la sua natura intima. C’è il mistero dell’uomo di fronte alla morte e alla vita, e l’inafferrabile Ricordo che diventa eterno grazie al cinema; d’altronde per ricreare quel preciso istante c’è bisogno della pellicola, solo tramite essa la memoria potrà conservare quel Ricordo. Il cinema che supera la morte donando una parvenza di vita. Mi piace.
Sospendo il giudizio, mai come questa volta c’è bisogno del vostro.
cercherò di vederlo poi ti dico quel che ne penso..
RispondiEliminascopro ora il tuo bellissimo blog, con uno dei film che più in assoluto amo...vienimi a trovare sul mio blog...ti linko lì...ciao, francesco
RispondiEliminahttp://cineclubbandeapart.blogspot.com/
Ovviamente ricambio ;)
RispondiEliminaCome dici tu, è un film "piccolo", forse anche meno profondo di quanto può sembrare a prima vista. Sicuramente originale e, in un certo senso, indimenticabile, con la sua atmosfera "ai confini della realtà" e l'approccio insolito al tema della morte e della memoria. E' stato il mio primo Koreeda, e mi ha spinto a segnarmi il nome del regista e a recuperare, quando possibile, altri suoi lavori. Che spesso (come nel caso di "Nobody knows" e di "Even if you walk and walk") si sono rivelati anche più belli, seppure non altrettanto originali.
RispondiEliminaAnch'io non conoscevo il tuo blog: mi piace molto, soprattutto per la scelta del film e dei registi (Haneke, Herzog, tanti orientali). Ti linko e ti seguirò, magari anche per conoscere meglio certo cinema italiano!
Se avrò tempo e (soprattutto) voglia mi metterò alla ricerca delle altre opere di Koreeda, o Kore-eda?, mi pare che possa valerne la pena.
RispondiEliminaOvviamente ricambio il link!