E all’improvviso sentì il bisogno di chiamarla.
Si erano conosciuti tempo addietro, sul crepuscolo di un giorno come tanti, fuori da un supermarket. Lui aveva comperato piatti di plastica e scatolette Simmenthal, lei i croccantini per il gatto. Tra i barattoli di piselli sullo scaffale si lanciavano timidi sguardi: lui aveva la consapevolezza che come sempre non l’avrebbe più rivista, lei cominciava a pensare che in fondo quel tipo non era così male.
Il sacchetto doveva rompersi nel preciso istante in cui lei oltrepassava la porta scorrevole, sparando croccantini in ogni direzione, anche sui piedi di lui, che per una volta nella sua vita sentiva di avere un’opportunità. Arrossendo lei chiese scusa con la testa china intenta a raccattare il mangime, lui si affrettava a perdonarla e intanto cercava nella sua testa qualcosa di intelligente da dirle.
Cinque minuti dopo erano al tavolino di un bar.
Capitò che si trovavano. Nelle idee, nelle opinioni, persino nelle risate. Insieme, entrambi, per la prima volta.
Quando sei stato uno per una vita non aspetti altro che diventare due, il periodo d’attesa è sofferenza e speranza, è come avere l’acquolina in bocca per il piatto più prelibato.
Misero su casa con i soldi da parte, così, in fretta. Lui trovò un lavoro tranquillo, bibliotecario, lei lasciò il suo impiego per venirgli incontro. La casa nuova era grande, necessitava di pulizie e manutenzione; accettò perché così doveva essere, quello che decideva uno andava bene all’altra, e viceversa. In questa simbiosi perfetta non c’era spazio per gli altri, né parenti né amici, vivevano in una bolla fuori dal tempo che tutti conosciamo, consapevoli del fatto di essere unici e irrepetibili.
Ma arriva sempre un giorno, però.
Un giorno però lei vedendo il suo riflesso allo specchio si accorse di non riconoscersi, di tempo ne era passato in quella casa, qualche anno forse, smarrita in una catena di montaggio: sveglia, colazione, saluto, pulizie, attesa, saluto, cena, amore, sonno. All’infinito, in ripetizione continua, un cerchio, dove la fine coincideva con l’inizio, sempre.
Dopo che sei diventato due, e ti abitui ad esserlo, ciò che hai desiderato con tutte le tue forze diventa routine, ed anche la portata più sfiziosa risulta insipida e scontata.
Presero una decisione di comune accordo, un periodo di riflessione diceva lei.
Lui acconsentì, convinto che poteva fare bene a entrambi.
Così ritornarono nelle loro case, tra scatolette di carne e piatti di carta. All’inizio fu dura per lui, in seguito fu anche peggio. Capiva che tanto era stato forte il legame, più la negazione di esso lo faceva stare male. E allora non si contavano le notti a piangere e a imprecare fissando il telefono nella vana speranza di uno squillo, dei ricordi infami che strisciavano nella sua memoria riportandolo a lei. Ogni. Singolo. Istante.
E lei soffriva perché lui soffriva. In questo meccanismo perverso riusciva ad essere la vittima ed il carnefice, ed anche lei stava male, ma non poteva e non voleva tornare indietro.
Quando ritorni uno dimentichi la monotonia e la noia, desideri soltanto ritornare due, brami nuovamente il cibo più squisito.
Passarono degli anni, dentro di lui il ricordo si era affievolito ma ancora pulsava di una luce propria.
Succedeva che in un vecchio baule impolverato riscopriva delle vecchie foto. E ritrovò se stesso, cioè l’altra sua metà che lo completava. Accarezzava con la punta delle dita i contorni del suo viso, immaginando di sfiorare la pelle delicata invece che la superficie liscia e fredda della fotografia, pensò al profumo e alla sua voce di quando rientrava a casa dal lavoro e si abbracciavano perché nessuno può vivere a metà, perché nessuno può vivere senza una metà.
E così, all’improvviso, sentì il disperato bisogno di chiamarla.
Si erano conosciuti tempo addietro, sul crepuscolo di un giorno come tanti, fuori da un supermarket. Lui aveva comperato piatti di plastica e scatolette Simmenthal, lei i croccantini per il gatto. Tra i barattoli di piselli sullo scaffale si lanciavano timidi sguardi: lui aveva la consapevolezza che come sempre non l’avrebbe più rivista, lei cominciava a pensare che in fondo quel tipo non era così male.
Il sacchetto doveva rompersi nel preciso istante in cui lei oltrepassava la porta scorrevole, sparando croccantini in ogni direzione, anche sui piedi di lui, che per una volta nella sua vita sentiva di avere un’opportunità. Arrossendo lei chiese scusa con la testa china intenta a raccattare il mangime, lui si affrettava a perdonarla e intanto cercava nella sua testa qualcosa di intelligente da dirle.
Cinque minuti dopo erano al tavolino di un bar.
Capitò che si trovavano. Nelle idee, nelle opinioni, persino nelle risate. Insieme, entrambi, per la prima volta.
Quando sei stato uno per una vita non aspetti altro che diventare due, il periodo d’attesa è sofferenza e speranza, è come avere l’acquolina in bocca per il piatto più prelibato.
Misero su casa con i soldi da parte, così, in fretta. Lui trovò un lavoro tranquillo, bibliotecario, lei lasciò il suo impiego per venirgli incontro. La casa nuova era grande, necessitava di pulizie e manutenzione; accettò perché così doveva essere, quello che decideva uno andava bene all’altra, e viceversa. In questa simbiosi perfetta non c’era spazio per gli altri, né parenti né amici, vivevano in una bolla fuori dal tempo che tutti conosciamo, consapevoli del fatto di essere unici e irrepetibili.
Ma arriva sempre un giorno, però.
Un giorno però lei vedendo il suo riflesso allo specchio si accorse di non riconoscersi, di tempo ne era passato in quella casa, qualche anno forse, smarrita in una catena di montaggio: sveglia, colazione, saluto, pulizie, attesa, saluto, cena, amore, sonno. All’infinito, in ripetizione continua, un cerchio, dove la fine coincideva con l’inizio, sempre.
Dopo che sei diventato due, e ti abitui ad esserlo, ciò che hai desiderato con tutte le tue forze diventa routine, ed anche la portata più sfiziosa risulta insipida e scontata.
Presero una decisione di comune accordo, un periodo di riflessione diceva lei.
Lui acconsentì, convinto che poteva fare bene a entrambi.
Così ritornarono nelle loro case, tra scatolette di carne e piatti di carta. All’inizio fu dura per lui, in seguito fu anche peggio. Capiva che tanto era stato forte il legame, più la negazione di esso lo faceva stare male. E allora non si contavano le notti a piangere e a imprecare fissando il telefono nella vana speranza di uno squillo, dei ricordi infami che strisciavano nella sua memoria riportandolo a lei. Ogni. Singolo. Istante.
E lei soffriva perché lui soffriva. In questo meccanismo perverso riusciva ad essere la vittima ed il carnefice, ed anche lei stava male, ma non poteva e non voleva tornare indietro.
Quando ritorni uno dimentichi la monotonia e la noia, desideri soltanto ritornare due, brami nuovamente il cibo più squisito.
Passarono degli anni, dentro di lui il ricordo si era affievolito ma ancora pulsava di una luce propria.
Succedeva che in un vecchio baule impolverato riscopriva delle vecchie foto. E ritrovò se stesso, cioè l’altra sua metà che lo completava. Accarezzava con la punta delle dita i contorni del suo viso, immaginando di sfiorare la pelle delicata invece che la superficie liscia e fredda della fotografia, pensò al profumo e alla sua voce di quando rientrava a casa dal lavoro e si abbracciavano perché nessuno può vivere a metà, perché nessuno può vivere senza una metà.
E così, all’improvviso, sentì il disperato bisogno di chiamarla.
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