Nel discorso iniziale di Marco dovrebbe fuoriuscire tutta la rabbia di una generazione alla deriva, sparando a zero sulla società, i mass media e i “moralisti del cazzo”. Dovrebbe. Perché il problema non sono le cose che vengono dette, ma chi le dice. Il difetto di fondo è l’aspetto che i due protagonisti, Helmut Berger e Corinne Cléry, hanno per tutta la durata della pellicola. Sempre lo stesso. Poi la Cléry può anche bucarsi la passera e Berger prostituirsi per l’eroina, ma se non vedo i segni tangibili sui loro visi, sui loro abiti, sulle loro vite, mi sembra quasi che dentro a quelle siringhe ci sia dell’acqua e basta. In Christian F. (1981), ad esempio, vengono messe due profonde occhiaie alla protagonista che testimoniano la sua caduta nella droga, nulla di che ma è già qualcosa. Ancora meglio con Ritorno dal nulla (1995), in cui Di Caprio appare quasi irriconoscibile. Il top è Requiem for a Dream (2000) dove la discesa nell’oblio dei protagonisti è rappresentata egregiamente e ha il suo apice nel braccio in putrefazione di Leto.
Qui sono altri tempi ok,ma un occhio di riguardo al make-up sarebbe stato auspicabile da parte di Pirri, perché mi rendo conto dopo aver visto parecchi droga-movie di quanto sia importante l’impatto visivo per lo spettatore, che, in questo genere, è sempre pervaso da un sottile voyeurismo e vuole vedere fino a dove si può spingere un tossicodipendente e come lo fa.
Oltre questo la pellicola di Pirri si trascina per la prima ora fra banalità e stereotipi, che forse sono tali ai miei occhi e che magari all’epoca non lo erano, comunque si susseguono i classici “riti” di compravendita tra pusher e tossici, ricerca di denaro attraverso le vie più illegali (prostituzione e addirittura furto della borsetta ad una peripatetica), perdita della dignità e di qualunque principio morale. Il tutto mentre Marco e compagna sembrano usciti da un fotoromanzo di quegli anni, sigh!
Ma verso i sessanta minuti Pirri sferra un pugno nello stomaco inaspettato e forse un po’ scorretto perché ha come protagonista un bambino. Già con L’immoralità (1978) il regista ci era andato parecchio pesante costruendo il film su un ambiguo triangolo fra un pedofilo, la bambina e la madre di quest’ultima. In Tunnel il climax della vicenda è rappresentato da un ragazzino (anche lui sembra sbucato da un fotoromanzo purtroppo) che dopo aver conosciuto la Cléry al parco si reca nella casa-pullman di quest’ultima ottenendo la promessa di farsi una trombata con lei in cambio di una dose portata da lui. Ovviamente all’interno del bus c’è anche Berger, il compagno della Cléry, ma non sembra essere troppo geloso, l’importante è che ci sia l’ero. Purtroppo per il ragazzino quella sarà la sua ultima pera. Morirà li dentro e Marco trasporterà il suo corpo su un furgoncino nella notte per poi lasciarlo su delle scale. È una sequenza drammatica ed inaspettata nel contesto, che ai giorni nostri creerebbe un “hype” incredibile. Dopo questo acuto il film rientra nei binari del “già visto” con una rapina, ovviamente fallita, da parte di Marco e un suo socio napoletano che ci rimette le penne durante una sparatoria. Così si arriva quasi al finale con un bel dialogo che cito a memoria: ”Adesso Tizio sarà già sul tavolo freddo dell’obitorio.” Dice Marco. “Come fai saperlo?” Risponde lei. “Gli ho visti, sono tanti e tutti uno di seguito all’alto. Poi fa freddo, come in questo momento… non senti che freddo fa?”
Loro due,è come se fossero già morti.
La fine per Marco arriva poco dopo. Viene caricato in macchina da alcuni tipi immischiati nella rapina rassicurandolo che è tutto a posto. Il regista qua è abile perché ferma la mdp su una stradina che attraversa una discarica, e noi vediamo la macchina prima andare e poi tornare. Infine l’immagine di un telo bianco della polizia sulla spazzatura fa da sfondo ai titoli di coda. Pregevole la scelta di non far vedere la morte del protagonista, in quel periodo di cinema bis non era da tutti oscurare un omicidio, dell’attore principale poi! Ottima soluzione a mio avviso.
La filmografia di Massimo Pirri è tanto esigua quanto introvabile. A dispetto di molti sui colleghi dell’epoca questo regista aveva qualcosa da dire e anche di molto graffiante, purtroppo i mezzi che ha usato non sono molto raffinati, avvicinandosi così al mero e gratutito exploitation di quel periodo. Tunnel è l'esemplificazione di quanto detto: il ritratto di una gioventù bruciata non è particolarmente incisivo perché non ha quella drammatica consequenzialità che trascina nella disperazione. È tutto troppo distaccato, ma due acuti ci sono eccome, ed è meglio che un calcio nel sedere.
Dimenticavo, azzeccata la colonna sonora dei The pretenders con Private life che fa capolino più e più volte.
Qui sono altri tempi ok,ma un occhio di riguardo al make-up sarebbe stato auspicabile da parte di Pirri, perché mi rendo conto dopo aver visto parecchi droga-movie di quanto sia importante l’impatto visivo per lo spettatore, che, in questo genere, è sempre pervaso da un sottile voyeurismo e vuole vedere fino a dove si può spingere un tossicodipendente e come lo fa.
Oltre questo la pellicola di Pirri si trascina per la prima ora fra banalità e stereotipi, che forse sono tali ai miei occhi e che magari all’epoca non lo erano, comunque si susseguono i classici “riti” di compravendita tra pusher e tossici, ricerca di denaro attraverso le vie più illegali (prostituzione e addirittura furto della borsetta ad una peripatetica), perdita della dignità e di qualunque principio morale. Il tutto mentre Marco e compagna sembrano usciti da un fotoromanzo di quegli anni, sigh!
Ma verso i sessanta minuti Pirri sferra un pugno nello stomaco inaspettato e forse un po’ scorretto perché ha come protagonista un bambino. Già con L’immoralità (1978) il regista ci era andato parecchio pesante costruendo il film su un ambiguo triangolo fra un pedofilo, la bambina e la madre di quest’ultima. In Tunnel il climax della vicenda è rappresentato da un ragazzino (anche lui sembra sbucato da un fotoromanzo purtroppo) che dopo aver conosciuto la Cléry al parco si reca nella casa-pullman di quest’ultima ottenendo la promessa di farsi una trombata con lei in cambio di una dose portata da lui. Ovviamente all’interno del bus c’è anche Berger, il compagno della Cléry, ma non sembra essere troppo geloso, l’importante è che ci sia l’ero. Purtroppo per il ragazzino quella sarà la sua ultima pera. Morirà li dentro e Marco trasporterà il suo corpo su un furgoncino nella notte per poi lasciarlo su delle scale. È una sequenza drammatica ed inaspettata nel contesto, che ai giorni nostri creerebbe un “hype” incredibile. Dopo questo acuto il film rientra nei binari del “già visto” con una rapina, ovviamente fallita, da parte di Marco e un suo socio napoletano che ci rimette le penne durante una sparatoria. Così si arriva quasi al finale con un bel dialogo che cito a memoria: ”Adesso Tizio sarà già sul tavolo freddo dell’obitorio.” Dice Marco. “Come fai saperlo?” Risponde lei. “Gli ho visti, sono tanti e tutti uno di seguito all’alto. Poi fa freddo, come in questo momento… non senti che freddo fa?”
Loro due,è come se fossero già morti.
La fine per Marco arriva poco dopo. Viene caricato in macchina da alcuni tipi immischiati nella rapina rassicurandolo che è tutto a posto. Il regista qua è abile perché ferma la mdp su una stradina che attraversa una discarica, e noi vediamo la macchina prima andare e poi tornare. Infine l’immagine di un telo bianco della polizia sulla spazzatura fa da sfondo ai titoli di coda. Pregevole la scelta di non far vedere la morte del protagonista, in quel periodo di cinema bis non era da tutti oscurare un omicidio, dell’attore principale poi! Ottima soluzione a mio avviso.
La filmografia di Massimo Pirri è tanto esigua quanto introvabile. A dispetto di molti sui colleghi dell’epoca questo regista aveva qualcosa da dire e anche di molto graffiante, purtroppo i mezzi che ha usato non sono molto raffinati, avvicinandosi così al mero e gratutito exploitation di quel periodo. Tunnel è l'esemplificazione di quanto detto: il ritratto di una gioventù bruciata non è particolarmente incisivo perché non ha quella drammatica consequenzialità che trascina nella disperazione. È tutto troppo distaccato, ma due acuti ci sono eccome, ed è meglio che un calcio nel sedere.
Dimenticavo, azzeccata la colonna sonora dei The pretenders con Private life che fa capolino più e più volte.
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