venerdì 19 maggio 2023

Yumen

Abbiamo un altro nome su cui puntare le nostre fiches: J.P. Sniadecki, cineasta americano del Michigan, antropologo e docente universitario, già collaboratore di Verena Paravel (nel 2010 hanno girato insieme Foreign Parts) e, non so con quali funzioni, anche di Salomé Lamas (nei crediti finali di Eldorado XXI [2016] c’è un ringraziamento per lui), nonché autore di diverse produzioni orbitanti nell’area documentaristica con una particolare attenzione all’universo cinese. Ogni qual volta si approccia un nuovo regista senza conoscere niente del suo passato si brancola un po’ nel buio ed il rischio di prendere una cantonata è dietro l’angolo, però da qualche parte bisogna pur cominciare e tale parte ha preso forma e sostanza in Yumen (2013). Giusto per confutare l’attrazione del regista per la Cina, eccoci nella provincia di Gansu in una ex oil-town, Yumen appunto, ora abbandonata e lasciata all’incuria del tempo. In uno scenario che sa di Černobyl’ in versione mandarina si capisce praticamente da subito che il film avrà mire più artistiche che meramente illustrative, gli interventi di Sniadecki sia nel settore sonoro che in quello video sono abbastanza evidenti, la tendenza è quella di prendere le distanze da una confezione accomodante in favore di una ricerca che mette in campo istanze differenti come la danza o la street art, tanto che con il progredire della pellicola la centralità di Yumen perde di fibra, sì qua e là vengono buttate alcune informazioni (tipo il perché si è svuotata) però l’atmosfera in cui si entra, parecchio eccentrica devo dire, avanza sulle possibili intenzioni esplicative. È un aspetto positivo, negativo o neutro?

Dipende da quali aspettative si hanno, il sottoscritto è sempre ben lieto di visionare titoli che si prendono dei rischi pur di proporsi in maniera inusuale, Sniadecki per dare una scossa all’impianto realistico inserisce dei personaggi che vagano tra le macerie cittadine. Due di essi, Huang Xiang e Xu Routao, oltre ad essere degli artisti locali, figurano anche come co-registi, e insieme ad altri bizzarri esseri umani si aggirano nell’ambiente post-atomico quasi fossero dei fantasmi. L’interpretazione ectoplasmica va per la maggiore nei commenti in Rete e pure io mi ci accodo, infatti, attraverso un commento esterno, udiamo le loro voci raccontarci brandelli di un passato che nell’incertezza non attribuirei a nessuno di loro, al massimo direi che sono gli echi di Yumen, in qualche modo, a farsi ancora vivi. Non c’è però un afflato nostalgico/malinconico come abbiamo visto in altre opere similari, la piega presa da Yumen è troppo scollata e laterale per lavorare sugli ipotetici ingranaggi emotivi, lo score stridente (brani che oscillano tra il popolare ed il moderno), i balletti (… mi permetto di decretarli così: goffi, ma probabilmente era una cosa voluta) e i volti ritratti sui muri, sono elementi che, e qui concordo con la recensione di Marco Chiani (link), trasportano il film nella performance-art, senza scordare un irrobustimento finzionale (tra un ragazzo e una ragazza pare si crei una sorta di legame). Alcune scelte tecniche e sintattiche seminano interrogativi che germogliano in un film più strano che bello, il che può comunque essere un buon motivo per spingersi nella visione.

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