lunedì 15 maggio 2023

Triangulum

Triangulum (2009 o forse 2008) ha tutta l’aria di essere un sogno ad occhi aperti in una qualche città mediorientale, certo liquidare la faccenda in maniera così sbrigativa è troppo facile, però quando nel cinema vengono annientate le coordinate del comune vedere ricorrere ad una chiave di lettura onirica è più un rifugio che una libera interpretazione. Di sicuro, comunque, non vi è stupore alcuno perché se si è ammiratori della coppia Gustavo Jahn - Melissa Dullius questo cortometraggio rientra appieno nel loro modo di fare arte. Solo che, forse per via di trovarsi agli albori della carriera, Triangulum, se rapportato alle altre opere del duo, risulta il più impenetrabile. Lungi da me considerarlo un difetto, al massimo l’estesa cripticità può essere uno stimolo che non è affatto detto debba venir obbligatoriamente decrittato. Sia come sia riporto quanto visto sullo schermo: Gustavo, Melissa e Michel (sì, un triangolo umano) in una città orientaleggiante (è Il Cairo), succedono cose, parlano persone in inglese, portoghese, arabo, subiamo l’effetto stordente del melting pot di voci e di volti, poi il trio, come in una fiaba di Shahrazād, sale su un tappeto per ritrovarsi separato, ognuno per sé alle prese con il mondo circostante, infine si ricongiungono in un commento off circolare: “ricominciare, per mille volte ancora, ricominciare”.

Da tradizione la gabbia espositiva è quadrata, l’aspetto della pellicola è “rovinato”, qui esclusivamente negli stralci in bianco e nero, perché sì, Triangulum procede per balzi cromatici incrementando il disorientamento, un campo può essere a colori, l’annesso controcampo il suo opposto. In un montaggio bello serrato spesso è complicato identificare i soggetti che si affacciano nella diegesi, chi sta parlando? E che sta dicendo? Meglio non fondersi inutilmente il cervello dietro ai dettagli, piuttosto vale la pena allargare lo sguardo per cogliere la complessità del film, del resto i due registi sono i soliti alchimisti che aprono la scatola-cinema ad immissioni di altre discipline, senza dimenticare (e come sarebbe possibile farlo?) il rifarsi ad un linguaggio visivo che sembra disseminare simboli (la piccola piramide luminosa; la piramide-tenda nel deserto) e al contempo attingere al bacino della realtà, se non della cronaca (la donna al tavolino che parla dell’Iraq; Melissa che distribuisce dei volantini alle passanti). Pretenzioso? Presuntuoso? Altezzoso? Non escludo nulla. Ma esattamente come per In the Traveler’s Heart (2013), alla fine, si sente che il ribollio artistico di Jahn & Dullius non è un vuoto atto d’onanismo.

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