Non mi sento di vendervi El Perdido come un film innovativo, di opere mute che però vogliono o almeno provano a dire comunque qualcosa ce ne sono e ce ne saranno a iosa, e non è nemmeno un lavoro che tocca chissà quali profondità, anzi la lettura del tutto è piuttosto semplice, il che, ad ogni modo, non deve essere considerato in maniera negativa, al contrario: l’idea che Farnarier ci propone è quella di una persona che ha deciso di sottrarsi alla modernità e così avviene: il percorso eremitico del ragazzo (attore non professionista e vicino di casa di Christophe) è privo di particolari sussulti, le attività svolte per la sopravvivenza rientrano nel ventaglio di azioni pronosticabili per chi è implicato in situazioni del genere, però le capacità di chi imbraccia la mdp fanno sì che il fluire delle cose abbia una grazia ammirabile a prescindere da ripetizioni e momenti vuoti. La pronta conseguenza è che questo tizio perso nei boschi è assolutamente credibile e la sua condizione di estraneità da contesti urbani, contemporanei e sociali non viene mai meno, si noti, ad esempio, che le uniche connessioni emotive che riesce ad instaurare sono con una civetta e con un cane smarrito come lui, o, per elogiare un dettaglio, occhio al giornale che legge dal titolo “actualidad” sebbene sia presumibilmente una rivista di molti anni addietro.
Dissiparsi, fuggire, scomparire, il quadro di Farnarier è composto da tali elementi rintracciabili in una austerità adagiata sulle frequenze paesaggistiche che nel finale si concede due inaspettate licenze poetiche, mi riferisco ad un dolce ingresso musicale che accompagna il precipitoso ripiegamento in bicicletta, e soprattutto all’unica finestra che si affaccia su un possibile oltre, al di là della realtà, nel tremolante riflesso sull’acqua di due corpi nudi avvinghiati, l’ipotetica proiezione di un sogno, di una fantasia che sta come a dire: anche se ci allontaniamo dall’Uomo il desiderio di calore, di prossimità verso i propri simili non svanisce mai.
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