martedì 17 novembre 2020

Rat Film

Parecchio interessante quest’opera prima firmata dal regista americano classe ’89 Theo Anthony, interessante perché anche solo ad un primo sguardo si comprende di come il film sia multi-accessibile poiché dotato di svariati ingressi che lo sfaccettano fino a stratificarlo, in tale ottica parliamo per forza di cose di un’azione registica ben calibrata in una contemporaneità che d’altronde non è mono-leggibile ma che si presta a differenti e molteplici approcci comprensivi. Quindi un punto fermo da cui può partire il dibattito è che Rat Film (2016), a prescindere dal titolo, non è un film sui topi, nonostante, comunque, lo sia, ma forse è maggiormente corretto dire che lo studio dei roditori è più che altro la chiave che permette ad Anthony di (farci) riflettere su molto altro, in primis sulla città che fa da sfondo alla vicenda, una Baltimora avvicinata sia attraverso una prospettiva storica trasmessa per mezzo di ricerche cronologiche e topografiche che suggeriscono particolari paralleli (qualcosa del tipo: il tempo cambia per non cambiare mai), sia con inserti presi direttamente da Google Maps e da una specie di simulatore virtuale dove dei bug di sistema conferiscono un sfuggente senso di finitezza e di instabilità. E piuttosto che cercare un nesso con il macro-tema dei ratti val la pena annotarsi la poliedricità della visione che non disegna chiari nessi razionali bensì associazioni volatili, connessioni complesse di non immediata decrittazione, e quindi stimolanti e aperte al pensiero dello spettatore: sia mai che le persone dai volti offuscati immortalate dalla camera di Google non richiamino degli anonimi topini oggetto di infiniti esperimenti ivi illustrati?

Quindi, innegabilmente, Baltimora ha una posizione preminente in Rat Film perché la sensazione è che lo spazio sia un concetto a cui il filmmaker tiene davvero molto, nella geografia e nella porzione di territorio in cui gli esseri viventi possono muoversi, dalle strade ai più piccoli pertugi (sull’argomento vedi la condivisibile recensione di Massimiliano Schiavoni: link). Eppure non siamo ancora giunti al centro di tutto perché il fulcro è, altrettanto innegabilmente, l’Uomo di Baltimora e un indizio ci viene già passato all’inizio quando il derattizzatore, un personaggio foriero di riflessioni filosofiche finanche religiose, dice in sostanza che non sono tanti i problemi dati dai topi quanto quelli degli umani. L’andamento del regista nel cogliere l’umanità che si rapporta agli scomodi animali è ovviamente variegato e rimbalzando da un abitante all’altro ci offre una carrellata di ossessioni e stranezze varie che orbitano tra gli estremi, da chi caccia i sorci con metodi ben poco ortodossi (qualcuno va addirittura a... pesca) a chi invece li accudisce in ampie stanze non disdegnando il loro contatto fisico. Il fatto è che se Anthony si fosse limitato alla “sfera umana” allora il film sarebbe parso nient’altro che un surrogato di Seidl (l’immagine frontale del tizio con le pantegane in testa potrebbe tranquillamente stare in una sua produzione) o a tratti di Herzog (Anthony conosce il regista tedesco avendo partecipato ad una sua master class), invece inserito nella pluralità se vogliamo anche disciplinare si arricchisce evadendo i confini dell’osservazione antropologica.

Il risultato è che molte vedute fanno affacciare su altrettanti panorami (alla fine, in uno slancio utopistico, si giunge perfino ad una proiezione futura che sa di fantascienza), tenuto conto che la non appartenenza al luogo ci fa inciampare su nomi ed eventi e che almeno un segmento sebbene tanto affascinante quanto folle (i diorami che ricreano delle scene del crimine) non trova a mio avviso incastro con la traiettoria generale, ecco a parte ridotte limitazioni del genere, Rat Film guadagna facilmente l’attenzione di coloro i quali hanno voglia di guardare il mondo oltre il proprio naso, e non è una frase fatta, qua non si scherza, partendo dai luridi bassifondi del regno animale si arriva alla cosmogonia, mica poco!

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