domenica 15 novembre 2020

Viejo calavera

Sinceri complimenti al boliviano Kiro Russo per il suo esordio Viejo calavera (2016) che non sembra neanche un esordio, la sfida raccolta dal regista è quella di girare un film che, ad esclusione del finale (e non è una casualità), non conosce il giorno. Rielaborando un corto precedente dal titolo Juku (2011), Russo si cala in una miniera tra le montagne della Bolivia testimoniando il tentativo di rimettere sulla retta via un soggetto irrecuperabile come il giovane Elder (attore non professionista al pari di tutti gli altri sul set) attraverso il duro mestiere del minatore. Il registro è sì realistico ma i movimenti della mdp, a volte dolci e fluttuanti, forniscono un taglio estetico ulteriore, di sospensione, a tratti mistico. Sicuramente il merito che va riconosciuto riguarda lo studio prospettico all’interno della cava, alle pressoché invisibili lucine che ogni tanto compaiono, ai luridi primi piani dei lavoratori che emergono dalle tenebre, e quindi alle tenebre stesse, in uno spazio che non ha altro se non infiniti corridoi più bui della notte che con piacere percorriamo visivamente. Indubbio che la location mineraria utilizzata e catturata da Russo produca un alto tasso di fascinazione, lui è comunque bravo a lavorarci sopra ricorrendo anche a diversi espedienti (tipo le sfocature ottiche) che impreziosiscono il girato, inoltre, a conferma delle sue abilità, è altrettanto convincente la fotografia a lume di candela di un villaggio che sembra trovarsi alla fine del mondo.

In un lavoro dove l’ambientazione assurge a vera protagonista, non ho tuttavia disdegnato il rivolo narrativo che la percorre, Russo dice cose semplici, già dall’incipit dove ad un certo punto parte un pezzo synthpop con tanto di inseguimento che, visti i contesti letteralmente opposti in cui il film andrà a dirigersi, suona a mo’ di canzonatura verso produzioni più altisonanti. La caratterizzazione di Elder si dà più per ciò che combina che per ciò che dice (praticamente niente), spicca tutta l’impreparazione a svolgere una mansione del genere (notevole la rapida messa in serie dei macchinari ed il loro frastuono che si schianta nelle orecchie del ragazzo, e nelle nostre), a ciò si infiltra poi il tema portante dell’opera che è il non chiaro delitto del padre ed il rapporto che viene a crearsi con Francisco, il padrino. Per fortuna Russo non scade in un’inutile spiegazione, quanto c’era di oscuro prima dell’arrivo di Elder rimane tale e anche successivamente non vi è una risoluzione netta, si galleggia in attesa che possa accadere qualcosa (mi aspettavo, sbagliando, in un’esplosione di violenza, ma forse così sarebbe stato troppo banale) perché si creano i suddetti presupposti (le inosservanze di Elder, il malcontento dei minatori, l’ambigua posizione di Francisco). E in effetti, con la dantesca riapparizione dall’oscurità, uno scarto si sostanzia sullo schermo, è giusto un’ipotesi, al massimo uno spiffero che porta con sé una lontana eco di perdono, oltre alla certezza che il cinema autoriale in Sud America gode sempre di ottima salute.

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