giovedì 18 giugno 2020

Mouton

Non nuovo, non innovativo, non seminale, Mouton (2013) ha proprio in queste constatabili negazioni i suoi piccoli pregi perché pur costituendosi in una forma e in una struttura già visionate miriadi di volte nel cinema recente, il suo essere mite, ridotto, semplice gli impedisce di strafare per rimanere sul pianeta Terra, dentro, davvero dentro la vita anonima di una cittadina balneare della Normandia. Le cartoline pagane di Dumont sono un po’ più a nord ma sembra ugualmente di trovarci a Calais o zone limitrofe, i registi Gilles Deroo e Marianne Pistone, lavorando con un manipolo di attori non professionisti dai visi consunti dalla salsedine atlantica e ritraendoli nel loro habitat esistenziale, promulgano un concetto di verità gradito, che si accetta, che si accoglie anche nelle sfumature meno attraenti, infatti se pensiamo a tutta la prima parte non vi è nulla che faccia balzare sulla sedia: assistiamo ad un routinario processo descrittivo (sempre seguendo i dogmi del realismo) che delinea la figura di un ragazzo qualunque, forse un po’ debole e “diverso” dal gruppo (la scena degli sputi in faccia è significativa in tal senso) ma che comunque si fa in quattro e che riesce a condurre una vita dignitosa. Poi Deroo & Pistone sorprendono con una seconda porzione che legittima quella precedente e che apre scenari concettuali da non sottovalutare.

Diventa quasi una faccenda musicale: tanto è piano e sequenziale il ritratto di Mouton, tanto il film diventa discontinuo, sfrangiato (anche etereo pur rimanendo immerso nel concreto) dopo il tragico accaduto. Siamo testimoni di un ribaltamento narrativo che non ci aspettavamo, d’altronde visto che il titolo dell’opera è proprio il nome del protagonista non era pronosticabile che a metà proiezione il giovane sparisse dal girato, come del resto non era prevedibile la modalità con cui la storia viene irrimediabilmente marchiata dal sangue. Per quanto mi riguarda ho trovato la gestione del climax da parte dei due autori davvero ottimale, in linea con lo stile privo di inutili orpelli la violenza, immotivata e cieca come è nella sua essenza, appare e scompare all’improvviso lasciando un segno ineliminabile: il male tronca, amputa, nel giro di qualche fotogramma cancella una vita filmica. Ma, e qui si situa il mio personale apprezzamento, come si suol dire, la vita (degli altri) continua, come? Normalmente, come sarà ieri, come sarà domani, così Mouton dopo aver toccato l’acme, riplana sul suolo interessandosi ad un trantran che in fondo non avrebbe alcun appeal al pari della sopravvivenza di Mouton, ma che venendo rapportato a ciò che si è visto prima si colora, e a sua volta colora la pellicola tutta, di una malinconia uggiosa dove i gesti quotidiani trasmettono una tristezza recondita.

Da un certo punto di vista sembra quasi che i registi instaurino una specie di dialogo tra gli abitanti del paese e il fantasma di Mouton: Louis, in una ripresa in dettaglio, deve tranciare un pezzo di carne rossa, i gemelli hanno un rapporto a tre con una prostituta il cui sesso viene immortalato a mo’ di citazione del famoso quadro di Courbet, riportando perciò un’idea di maternità che manca all’aiuto cuoco (il suo approccio sessuale è concentrato ad una pseudo-suzione del seno), Mimi dà da mangiare agli ospiti di un canile (… mentre lui si occupava dei gatti del vicino). È tutto comunque flebile, pressoché invisibile nel fluire ordinario che viene presentato (e non rappresentato, la differenza è notevole), va da sé che quando la lettura è obbligatoriamente tra le righe e quando l’accessibilità del primo impatto cela invece un’altezza capace di dare qualche vertigine, chi scrive non può che ricevere con soddisfazione questo esempio di cinema. Che poi non ci vuole granché a far breccia nel cuore dello spettatore, è sufficiente una banale lettera che finisce così: i tuoi amici, che non ti scorderanno mai. E neanche noi lo faremo.

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