Anche
se non conosco il cinema di Marlen Khutsiev (o Chuciev o
chissà quale altra traslitterazione dal cirillico), comprendo
appieno la natura di Infinitas (1992)
perché è un’opera che non può che arrivare al tramonto di una
carriera, o di una vita, sebbene Khutsiev, nato in Georgia nel 1925,
sia mancato soltanto nel 2019. Parliamo di un film mastodontico che
si dilata in un massiccio esperienziale tangente le tre ore e mezza,
una ricerca umana sulla fine dell’esistenza che non ha una trama
classica ma vive di fiammate per mezzo degli incontri che il
protagonista fa, l’incredibile regressione compiuta e che si
srotola davanti a noi è squisitamente atemporale, Khutsiev con passo
felpato rimescola le coordinate del passato e del presente creando
dei cortocircuiti che ci ubriacano e allora divelte le linee
orientative può capitare che nel giro di una notte si passi
dall’estate all’inverno oppure che in una scena meravigliosa la
madre di Vladimir parli a suo figlio in fasce e quest’ultimo, che
la sta guardando da dietro un muro, risponda dal fuori campo con voce
adulta. Infinitas
è letteralmente disseminato di situazioni che sfibrano l’apparato
narrativo (ci sono i prodromi di un certo cinema contemplativo che
verrà oltre, ovviamente, al tributo tarkovskijano)
ma che al contempo rafforzano quello concettuale perché il
girovagare di Vladimir (peraltro sosia di Slavoj Žižek) è
leggibile come una profonda indagine filosofica in cui si toccano
argomenti di una vastità tale da tendere, come da titolo,
all’infinito. E in questo infinito rimane pur sempre l’uomo come
traccia, un uomo che soffre, che ama, che dimentica, che si interroga
senza trovare risposte, Khutsiev nel suo tour de force fa camminare
il povero Vladimir su un crinale che più si inerpica e più gli
toglie sicurezze, ad un certo punto i piani si sfasano talmente tanto
che, passando da una stanza all’altra della propria casa, si entra
in un salotto dei primi del ’900, oppure ad un contingente militare
si sostituiscono vere immagini di archivio, un ulteriore testacoda,
ancora una giravolta nello spaziotempo.
Infinitas
rimane un lungometraggio sovietico degli anni ’90 e, complice
l’unica copia rinvenibile che è una registrazione di Fuori Orario
in pessime condizioni audiovisive, accusa un po’ i trent’anni che
ha sulla carta di identità, ad esempio c’è un uso smodato delle
musiche per coprire le lunghe sequenze prive di dialoghi, però se ci
si impegna ad andare oltre l’impatto estetico si spalanca un
labirinto che vale la pena percorrere insieme a Vladimir, e lui
stesso, nel suo complicato finanche doloroso percorso, ha una specie
di guida (lo sembra almeno all’inizio), un compagno di sventura che
altri non è se non il suo Io da giovane e questo persistente
confronto con ciò che lui è stato diffonde sullo schermo un sapore
di malinconia, il rivedersi, anzi: il riviversi è un’eruzione
silenziosa che ci viene trasmessa senza particolari sottolineature ma
che, se ci pensiamo bene, è la messa in scena della vita che ti
passa davanti a cui non puoi porre rimedio, un bis partecipato
con la consapevolezza del vissuto, e in tal senso il vertice lo si
raggiunge nell’area sentimentale (inevitabilmente coacervo di
rimpianti) dove l’uomo è costretto a ri-presenziare la storia
d’amore con Varya, da un nuovo primo incontro ad un secondo ultimo
addio (memorabile la scena in stazione con la doppia benedizione
della donna). Se vi state domandando se Khutsiev attua, alla fine,
una riconciliazione tra il Vladimir di prima con il Vladimir di oggi
la risposta è no, la mdp li segue lungo una passeggiata in cui
provano a darsi la mano senza riuscirci per poi imboccare i due
argini opposti di un fiume, Khutsiev tenta di seguirli ma le frasche
si infittiscono e loro spariscono, rimane l’estuario su un mare
grigio che sembra il corrispettivo del cielo in apertura.
Una
visione pienissima dunque, un vero colosso della cinematografia
sovietica che meriterebbe di essere ammirato in una confezione più
consona e con un bagaglio culturale più ampio (ho letto di incontri
con personalità russe che da buon ignorante non ho colto),
ciononostante, già da così, se ne comprende la grandezza.
Io ho glissato la cattiva reperibilità di questo film e mi sono dato alla visione di quello che penso sia considerato il suo lavoro più celebre, “Ho vent’anni”. Parecchio felliniano, ma estrapolando il centro della tua opinione concordo che sia un’autore che invecchia parecchio male.
RispondiEliminaMa anche questo credo abbia del felliniano, dico credo perché non posso ritenermi un esperto in materia per cui preferisco tacere, resta comunque una solennità esistenziale tutta sovietica, sebbene indirizzata su una piccola storia intima, che cinematografie come quella italiana non possiedono.
RispondiEliminaSull'"invecchiamento" è un discorso ampio e delicato che mi manda in crisi. Molte volte, quando mi avvicino ad opere del passato più o meno remoto, faccio una fatica tremenda a ripulirmi gli occhi dalla contemporaneità, ne consegue che alla fin fine non riesco quasi mai a farmi un'opinione mirata e libera dai paragoni con l'oggi.