mercoledì 10 giugno 2020

Infinitas

Vladimir, un uomo di mezz’età come tanti, decide di vendere tutti i mobili del suo appartamento e fare ritorno alla città natale.

Anche se non conosco il cinema di Marlen Khutsiev (o Chuciev o chissà quale altra traslitterazione dal cirillico), comprendo appieno la natura di Infinitas (1992) perché è un’opera che non può che arrivare al tramonto di una carriera, o di una vita, sebbene Khutsiev, nato in Georgia nel 1925, sia mancato soltanto nel 2019. Parliamo di un film mastodontico che si dilata in un massiccio esperienziale tangente le tre ore e mezza, una ricerca umana sulla fine dell’esistenza che non ha una trama classica ma vive di fiammate per mezzo degli incontri che il protagonista fa, l’incredibile regressione compiuta e che si srotola davanti a noi è squisitamente atemporale, Khutsiev con passo felpato rimescola le coordinate del passato e del presente creando dei cortocircuiti che ci ubriacano e allora divelte le linee orientative può capitare che nel giro di una notte si passi dall’estate all’inverno oppure che in una scena meravigliosa la madre di Vladimir parli a suo figlio in fasce e quest’ultimo, che la sta guardando da dietro un muro, risponda dal fuori campo con voce adulta. Infinitas è letteralmente disseminato di situazioni che sfibrano l’apparato narrativo (ci sono i prodromi di un certo cinema contemplativo che verrà oltre, ovviamente, al tributo tarkovskijano) ma che al contempo rafforzano quello concettuale perché il girovagare di Vladimir (peraltro sosia di Slavoj Žižek) è leggibile come una profonda indagine filosofica in cui si toccano argomenti di una vastità tale da tendere, come da titolo, all’infinito. E in questo infinito rimane pur sempre l’uomo come traccia, un uomo che soffre, che ama, che dimentica, che si interroga senza trovare risposte, Khutsiev nel suo tour de force fa camminare il povero Vladimir su un crinale che più si inerpica e più gli toglie sicurezze, ad un certo punto i piani si sfasano talmente tanto che, passando da una stanza all’altra della propria casa, si entra in un salotto dei primi del ’900, oppure ad un contingente militare si sostituiscono vere immagini di archivio, un ulteriore testacoda, ancora una giravolta nello spaziotempo.

Infinitas rimane un lungometraggio sovietico degli anni ’90 e, complice l’unica copia rinvenibile che è una registrazione di Fuori Orario in pessime condizioni audiovisive, accusa un po’ i trent’anni che ha sulla carta di identità, ad esempio c’è un uso smodato delle musiche per coprire le lunghe sequenze prive di dialoghi, però se ci si impegna ad andare oltre l’impatto estetico si spalanca un labirinto che vale la pena percorrere insieme a Vladimir, e lui stesso, nel suo complicato finanche doloroso percorso, ha una specie di guida (lo sembra almeno all’inizio), un compagno di sventura che altri non è se non il suo Io da giovane e questo persistente confronto con ciò che lui è stato diffonde sullo schermo un sapore di malinconia, il rivedersi, anzi: il riviversi è un’eruzione silenziosa che ci viene trasmessa senza particolari sottolineature ma che, se ci pensiamo bene, è la messa in scena della vita che ti passa davanti a cui non puoi porre rimedio, un bis partecipato con la consapevolezza del vissuto, e in tal senso il vertice lo si raggiunge nell’area sentimentale (inevitabilmente coacervo di rimpianti) dove l’uomo è costretto a ri-presenziare la storia d’amore con Varya, da un nuovo primo incontro ad un secondo ultimo addio (memorabile la scena in stazione con la doppia benedizione della donna). Se vi state domandando se Khutsiev attua, alla fine, una riconciliazione tra il Vladimir di prima con il Vladimir di oggi la risposta è no, la mdp li segue lungo una passeggiata in cui provano a darsi la mano senza riuscirci per poi imboccare i due argini opposti di un fiume, Khutsiev tenta di seguirli ma le frasche si infittiscono e loro spariscono, rimane l’estuario su un mare grigio che sembra il corrispettivo del cielo in apertura.

Una visione pienissima dunque, un vero colosso della cinematografia sovietica che meriterebbe di essere ammirato in una confezione più consona e con un bagaglio culturale più ampio (ho letto di incontri con personalità russe che da buon ignorante non ho colto), ciononostante, già da così, se ne comprende la grandezza.

2 commenti:

  1. Io ho glissato la cattiva reperibilità di questo film e mi sono dato alla visione di quello che penso sia considerato il suo lavoro più celebre, “Ho vent’anni”. Parecchio felliniano, ma estrapolando il centro della tua opinione concordo che sia un’autore che invecchia parecchio male.

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  2. Ma anche questo credo abbia del felliniano, dico credo perché non posso ritenermi un esperto in materia per cui preferisco tacere, resta comunque una solennità esistenziale tutta sovietica, sebbene indirizzata su una piccola storia intima, che cinematografie come quella italiana non possiedono.

    Sull'"invecchiamento" è un discorso ampio e delicato che mi manda in crisi. Molte volte, quando mi avvicino ad opere del passato più o meno remoto, faccio una fatica tremenda a ripulirmi gli occhi dalla contemporaneità, ne consegue che alla fin fine non riesco quasi mai a farmi un'opinione mirata e libera dai paragoni con l'oggi.

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