martedì 16 giugno 2020

DAU. Three Days


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica
Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. THREE DAYS

Tre giorni, settantadue ore per denudare il re: finalmente, nell’immaginario di DAU entra in scena il per così dire biografato, Lev Landau è il protagonista principale di DAU. Tri diya (2020) e lo è non per questioni che si potevano presumere (questioni scientifiche), bensì per faccende amorose che di riflesso, attraverso un serrato confronto, delineano la sua forma umana, un misto di genialità (che non vediamo) e di debolezze (queste invece sì che le vediamo). Prima di addentrarci negli argomenti importanti val la pena aprire una parentesi: si è già ampiamente detto nei film precedenti dell’impianto teorico e pratico imbastito da Ilya Khrzhanovskiy, qui sarebbe interessante conoscere a fondo la vita del fisico sovietico per capire se davvero ha avuto legami così stretti con la Grecia (ad una banale ricerca su Google non spunta nulla) al punto di parlare fluentemente greco, perché altrimenti saremmo in presenza di una falla finzionale non in linea con i dettami del progetto. Come sapete l’attore che interpreta Landau si chiama Teodor Currentzis, un direttore d’orchestra ateniese, e cosa sembra che faccia Khrzhanovskiy? Sembra che gli cucia addosso una liaison con una vecchia fiamma ellenica che trovandosi a Mosca va a fargli visita nell’Istituto. Parrebbe una bazzecola, però a mio avviso va sottolineata questa scelta perché ritengo ci sia una discreta differenza tra mettere degli scienziati veri dentro ad un contesto fittizio dove ricoprono i medesimi ruoli professionali di fuori, e impostare un intero tassello di DAU su un’ipotizzabile romanzatura, peraltro asservita alla nazionalità dell’attore principale, insomma al sottoscritto, questo, è parso ad oggi l’episodio maggiormente “costruito” a tavolino, il che non significa che non sia meritevole di essere visto, anzi, è il contrario, tuttavia, visto che ormai ci siamo dentro fino al collo, ho ritenuto giusto rimarcare lo statuto ontologico di Three Days.

Chiusa parentesi. La continuità con DAU. Nora Mother (2020) è lampante tanto da costituirsi come un secondo atto, la vicenda infatti ha luogo mentre Nora è in vacanza in Crimea pagata dal marito, il quale, solo soletto, può dare sfogo al suo spirito libertino. Se non erro avevo letto che Khrzhanovskiy si era ispirato ad un libro scritto dalla moglie Kora per la figura dello studioso, se così è il Premio Nobel del 1962 ne esce fuori come un uomo con una visione della vita piuttosto aperta (non scordiamoci il suo “colloquio” di lavoro per il posto vacante da domestica [1]), soprattutto in merito ai rapporti sentimentali, teorie personali che esplicita alla vecchia amica Maria (si tratta di Maria Nafpliotou, attrice greca) e che a noi confutano le sibilline supposizioni della suocera in Nora Mother. Al solito i flussi conversativi sono notevoli e si prendono gran parte del minutaggio, i dialoghi tra Landau e Maria, oltre a svelarci un po’ del loro passato, scendono pian piano sempre più in profondità spogliando i loro personaggi dei ruoli sociali che rivestono fino a far intravedere la brace di una passione giovanile mai del tutto sopita, il pregio dell’operazione, che abbiamo avuto modo di cogliere sia in Nora Mother che in DAU. Natasha (2020), è il non venire meno di una credibilità filmica, non si dubita praticamente mai di ciò che si vede, nemmeno quando l’opera pascola in un’area che si affida all’emotività. È chiaro che la sola presenza dei due ex fidanzati non avrebbe consentito uno sviluppo, sicché la necessità di una svolta tramica era indispensabile e nuovamente il regista russo fa affidamento ad una sterzata quasi da melò, una deviazione che in altri esemplari cinematografici risulterebbe comica, d’un tratto c’è da considerare il triangolo: lui, lei e l’altra.

L’improvviso ritorno di Nora è un micro cataclisma gestito davvero bene da Khrzhanovskiy, e pur rimanendo intorno al tavolo dell’appartamento il faccia a faccia a tre sale di intensità, questo perché il rapporto tra Dau e Maria, come accennato prima, si era rivelato solido, credibile, e perciò l’ingresso della consorte è un elemento critico che rende sfiziosa la portata, e inoltre perché la struttura della chiacchierata che vede Landau nei panni di traduttore incalzato dalle due donne fa il suo dovere: intrattiene, accende, e l’esito finale ci dice di uno scienziato che ne esce con le ossa rotte, al cospetto delle proprie responsabilità coniugali si rintana nella poltrona, è tramortito, sta male, fugge nel laboratorio. Be’, se si voleva dare un profilo umano a Landau credo proprio che ci siano riusciti grazie ad un sistema, prettamente basato sui dialoghi, che ha messo alla berlina le sue fragilità, la sua posizione da intoccabile... toccato invece nell’animo perché l’ultimo Landau che si vede prima della schermata nera, quello seduto a fissare il vuoto in un corridoio dell’Istituto attraversato da dei passi in avvicinamento, è un essere solo e impaurito.
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[1] In questa scena è presente anche Trifonov, il futuro direttore dell’Istituto che verrà poi sostituito da Azhippo nel tombale DAU. Degeneration (2020).

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