domenica 14 giugno 2020

Bobby Yeah

 
Ci piace così Bobby Yeah (2011): completamente fuori di melone, viscido, malato, creepy: ah, che bello poter posare gli occhi su della (mal)sana artigianalità, non vorrei ripetere i discorsi fatti a proposito di The Secret Adventures of Tom Thumb (1993) ma c’è poco da fare, quando l’estro viene filtrato in stop-motion si ritorna con piacere ad uno stato di meraviglia dimenticata, se poi l’artista di turno, in questo caso è il britannico Robert Morgan, ha un feeling particolare con il bizzarro che, come Švankmajer insegna, si sposa perfettamente con la tecnica del passo uno, allora il più è fatto, non rimane che gustarci il menù-stramberie della casa, e, lo si evidenzia, non vi è nient’altro su cui porre l’attenzione che non sia esattamente il tasso di stranezze assemblate per costruire una parvenza di storia, la quale, invece, almeno per ciò che riguarda Bobby Yeah (ma forse vale un po’ per tutti gli altri prodotti equipollenti) non si rende memorabile. Quanto più mi soddisfa di registi come Morgan è l’atto che compiono all’interno dello spazio cinema, sono come dei dottor Frankenstein che unendo oggetti inanimati, pezzi di carne o altre sostanze di sconosciuta provenienza, riescono ad insufflare nei loro spenti corpicini un vero e proprio alito vitale che le rende creature con un piede nel surreale (perché la normalità non ha mai asilo) e un altro nel reale (perché nonostante tutto parliamo di “cose” che stanno intorno a noi [se non dentro]: tessuti, fibre, dita, peni, ma anche polpi, pupazzetti e cianfrusaglie di vario tipo). In sintesi: una figata.
La spinta che sembra muovere in avanti il corto è quella di una continua procreazione da parte degli esseri in scena, i mostriciattoli generano altri mostriciattoli in un processo di concepimento quasi trasformativo, mutante, anche se, e Morgan pare proprio divertirsi in tale ottica, ciò che si genera non è migliore di chi ha generato, anzi fa ancora più schifo, ed è la tendenza a spingersi a fondo nel disgustoso che accende il fascino deviato dello spettatore. Non si deve nascondere che l’imperante schifo appena citato si riverbera in un macabro che non ha troppo a che fare con la morte come la parola semanticamente suggerisce, è più un raccapriccio dalle basi ludiche, un lato oscuro del cinema animato che, quando si schiude come le valve dei molluschi, custodisce delle perle luminose.

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