sabato 2 maggio 2020

Mata Atlântica

Spinge a volerne sapere di più sul suo conto Mata Atlântica (2016) perché questo corto ha a sua volta una spinta interiore che lavora in modo sottile, che suggerisce appena, che si apre in un non trascurabile ventaglio di possibilità, di suggestioni, di ipotesi, e tutto ciò, ne converrete, è un gran bene in relazione ad una visione così breve. Girato a San Paolo, in un parco pubblico che in sostanza sarebbe uno dei tanti spicchi verdi rimasti della Foresta Atlantica, e firmato dal duo francese Nicolas Klotz - Elisabeth Perceval (fossi in voi butterei un occhio al loro progetto successivo: L’héroïque lande - La frontière brûle, 2017), al film in oggetto si riconosce una tendenza a connettere due dimensioni non così facilmente conciliabili come può essere la quotidiana realtà di una donna che vive in una grande metropoli mondiale ed il lato ancestrale, oscuro, dimenticato che si annida a qualche passo da lei. Forse mi sbaglierò, ma la scelta di affrontare questa dicotomia ricorda approcci lontani dal cinema europeo e vicini a quello orientale (vedi il buon vecchio Weerasethakul), sicché, al pari delle manifestazioni del thailandese, sebbene, ovviamente, in scala ridotta, accade di sentirsi un po’ impreparati al cospetto di tali inattesi sfasamenti, che poi non si parla certo di un film che sconvolgerà la vostra mente, però operando sotto epidermide ritengo che Mata Atlântica sappia stimolare quelle zone di attenzione spesso anestetizzate dal cinema che non ci meritiamo.

I registi mi sono piaciuti nell’idea di soprannaturalità che hanno impresso in video, perché riducendo, per buona parte dell’opera, le spiegazioni a zero, la presenza dell’entità misteriosa aleggia in un commento over che depista e disorienta, tutt’ora, a proiezione ultimata, non è chiaro se i pensieri appartengano allo spirito della foresta o all’uomo che si aggira circospetto tra le frasche, e onestamente poco importa, l’escamotage del narratore interno è solo un elemento che rinforza la sensazione di maneggiare un oggetto che si affaccia nell’incognito. Gli altri addendi che definiscono questo quadro enigmatico sono dati da accorgimenti tecnici di livello (la ragazza si inoltra nel fitto delle piante e l’immagine sfibra, si sporca, perde la leggibilità del digitale per proporsi in chiave deteriorata, footage) o da semplici primi piani vagamente inlandempiriani su una anziana donna dagli occhi celesti e luciferini. Poche cose ma fatte bene, e bene è anche esposto il finale musicale con il menestrello urbano che detta una possibile linea interpretativa (soprattutto in relazione al tizio che spiava nel parco) senza però voler impartire alcunché, lasciandoci perciò nei nostri graditi arrovellamenti celebrali.

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