sabato 23 maggio 2020

κατάβασις

STATUE
Quando chiudo gli occhi vedo fiche, solo fiche, un turbinio di fiche: pendule, arrossate, immonde, atre, callose, purulente, cancrenose, slabbrate, impelosite, sfrattagliate, prolassate, deturpate, mi accerchiano con il loro afrore, mi vogliono inglobare per soffocarmi dentro quelle pareti cavernose e bagnaticce, sono ovunque, svolazzano, strisciano, boccheggiano a centinaia, ma so che lì in mezzo, la tua, di fica, non c’è, quando il cielo riapre il suo occhio felino un riflesso dal tapetum lucidum turchino saetta verso l’escremento secco che si riscalda sopra ad una sdraio di plastica in mezzo ad un giardino disordinato, quell’escremento sono io, e lei non è troppo lontana, è giusto nell’altro giardino, quello oltre la strada pedonale, protetto da una cancellata che qualche inquilino precedente ha ricoperto con dell’edera finta, la mia di edera invece è vera e per fortuna nella sua lenta avanzata perimetrante ha lasciato scoperto un buchino nel quale poggio un periscopio trasparente che mi permette di vederla da quaggiù, da questo abisso pieno di statue sul fondale che implorano la luce a braccia alzate, e io so che lei sta arrivando quando sento un tintinnio di chiavi che puntualmente tira fuori dalla tasca poco prima di infilarle nella toppa del portoncino di metallo, poi non la vedo più, i capelli biondi spariscono al di là del rampicante plastificato, e allora osservo la consistenza fecale che mi dà forma e odore, senza-forma puzzolente, scarto, deiezione sciolta che frigge sotto il sole di mezzogiorno, delle mosche, attirate dal prelibato banchetto, ronzano ossessionate fino a quando la voce di mia madre, da lontano, dice che è pronto e allora mi muovo lentamente lasciando una scia di muco marrone sulla quale le mosche si avventano golose, giro la manopola di ottone della portafinestra, l’occhio cosmico del gatto si è già rivolto altrove, ora, sopra di noi, rimane il buio.
La signora del quarto piano, cenciosa e giuliva, sempre addobbata con suoi pizzi da centrotavola che mette sulle spalle, cenciosa negli innumerevoli strati di abiti che porta addosso anche in estate, sa di caramella Rossana, sempre, un tripudio zuccheroso la precede ed ectoplasmaticamente la fa presente anche se non c’è, il suo appartamento è di marzapane, la cassapanca, antichissima, di puro cioccolato fondente, i suppelletteli, le carabattole che popolano ogni ripiano disponibile sono meringhe finemente lavorate, e lei ride, con molti più denti dei quali è normalmente dotato un essere umano, e cammina sulle dita dei piedi che sono agili come le dita di due mani che suonano il pianoforte, le dico che sono venuto da lei perché mamma mi ha detto che il computer le fa le bizze e io, che non so aggiustare i computer, sono stato spedito lì perché anagraficamente dovrei essere in grado di farlo, così mi siedo alla scrivania ricoperta di una glassa appiccicosa e accendo un vecchio pc che ronza stanco, la signora del quarto piano arriva con un vassoio pieno di pasticcini impiramidati, simulo impegno e dedizione nel lavoro che non so fare mentre allungo il collo dalla finestra e guardo giù, che poi è sempre un su, e riguardo giù, nel suo giardino, che da lì è giusto un rettangolo piastrellato e attendo con speranza di vederla comparire, la ventola del computer si accende, comincia a fare un rumore del diavolo, ecco, dice la signora che spunta con un’enorme torta alla panna, fa sempre così, ma io rispondo che non vedo niente, controlla meglio ragazzo mio, e ingolla un bicchierone di sciroppo alla menta, controllo meglio: la porta che dà sul suo giardino si apre, il mio cuore si ferma, la ventola aumenta di intensità i giri, il case trema tutto facendo vibrare delle foto ritraenti gelati e ghiaccioli appese alla parete, appare un paio di jeans strappati dentro ad un busto largo e squadrato, e due braccia, grosse, muscolose, tatuate da ghirigori che arrivano al collo, ventola in fusione, terremoto in atto, attenzione, terremoto in atto, allontanarsi immediatamente dall’edificio, ripeto, allontanarsi immediatamente dall’edificio. Be’ signora, purtroppo credo che non ci sia più niente da fare. Ma come? Che peccato!, gradisci un po’ di sacher appena sfornata?
Me aquilone, me palloncino di elio, vi prego tagliatemi il filo, fate sì che io possa ascendere, salire in alto non per evitare di vedere un altro uomo che esce dalla sua casa, ma per non essere visto, per svanire indolore nel taglio verticale che se ne sta lassù, nella pupilla allungata del gattone astrale e accedere così nel suo cervello, nella materia spugnosa sopra la quale orbitano miliardi di pianetini che instancabili, a loro volta, ruotano intorno alle loro piccole lune, seguendo le leggi di una fisica sconosciuta, attraverso onde celebrali, onde gravitazionali, onde di un mare che mi trascina leggero, me essere non più essere, e quindi volteggiare libero, planando sopra le biglie azzurrognole che compongono questa parte di universo gattesco, riempendomi dei colori di altre vite che vedono giusto un’ombra veloce passare sopra le teste, bevendo dai loro cuori, dormendo nelle loro anime, me spugna, me imbuto, me grondaia, sentire che tutto possa convergere nel nulla che sono, sentire, semplicemente, tutto, venirne invasi, in un divenire continuo dove la speranza ha il sapore della prima persona che hai baciato nella tua vita e dove la paura del futuro è lo studio di un notaio che ti riceve con la cravatta blu, volare, ancora, altrove, raccogliendo la voce spezzata di un centenario che vede già il suo angelo seduto sulla poltrona davanti a lui, accarezzando la nuca di un neonato dal cranio sottilissimo e traslucido che lascia intravedere altri universi e altri mondi, e vivere, me non vivente, nelle esistenze degli altri per farle un po’ mie, per cercare di capire il senso di un universo di cui posso diventare il centro, il punto in mezzo agli occhi del gatto dove il suo pelo tigrato forma una M, esattamente nel vertice basso tra \ e /, nell’ipocentro pieno di giardini, siepi, aiuole, roseti, gazebi, alberelli di limone, ginestre, bouganville, sediole, barbecue, vasi, terriccio, ma anche solo un pavimento di piastrelle lisce, un asciugamano, una Coca-Cola, della musica sputata fuori da uno smartphone, poi, nell’immensa volta celeste, nel gatto-galassia, la voce di mamma si espande solenne, è la voce di un dio minore che dice di alzare le chiappe che è pronto, e allora io riparto, me boomerang, me povero me, all’indietro, in una regressione spaziale che mi vomita fuori, uno scarto interplanetario che spurga dall’occhio felino come una lacrima, come una caccola attaccata ad un lungo filo che mi fa rinculare ad una velocità inumana, di nuovo lì, nel cielo conosciuto, sopra i tetti conosciuti, un inesorabile ritorno casalingo che mi rinchioda alla sdraio, me deiezione, me merda rinsecchita e ricoperta da biondi ciuffi setolosi, me stoppa. A tavola, minestra, un lago verde e denso da dove affiorano misteriosi relitti, impugno il cucchiaio, il dorso della paletta riflette la mia faccia, e la mia faccia riflessa, non la mia, dice che quel cucchiaio mi servirà.
E scavo scavo scavo scavo, il cucchiaio solleva la terra che mi butto alle spalle tracciando continui archi ocra, più scendo e più – strato dopo strato dopo strato – sento freddo, vermi obesi si affacciano per provare a comprendere il perché di tale trambusto, fossili e conchiglie preistoriche, scheletri di cavallucci marini antidiluviani, scombino un ecosistema madido dove vecchie radici bianche, fini, si reticolano in una profondità che proprio ora – scucchiaiata dopo scucchiaiata dopo scucchiaiata – sto andando a violare. Ho un piano, un piano cristallino, sarà la prima volta che uno stronzo, invece di precipitare giù dal tubo di un cesso, lo risalirà, e quando sarò in casa sua le spiegherò come stanno le cose, quanto è importante per me, che [altri dettagli in seguito...]. E sterro sterro sterro sterro, guardo il gatto-cielo-occhio che è ormai un tondino blu molto più distante del solito, sono alla base della mia torre tumulata, il cucchiaio, piegato a morte, non mi serve più, poggio i piedi sulla calotta cranica del pianeta, sulla dogana dell’ovulo femminile che – scodata dopo scodata dopo scodata – decido di fecondare in quanto aitante spermatozoo dotato di autocertificazione: posso sfondare, e sfonda sfonda sfonda sfonda, al freddo di prima si sostituisce un tepore avvolgente, in pratica scivolo, risucchio, aspiro, ciaociao, sento solo la terra del mio giardino richiudersi seppellendomi, ma io ho oltrepassato la membrana e un suono sonico, veloce e perforante, si diffonde nel cervello che adesso si gonfia e si sgonfia come il mantice di una fisarmonica, pulsa nel cranio, enorme lui e feto io, fulmini globulari esplodono in bagliori d’accecante bellezza, non è che galleggio, non è che volteggio, ma, come sempre, cado, è una vita in verticale la mia, senza ascesa, è un tracollo, forse sto nascendo di nuovo – respiro dopo respiro dopo respiro –, forse sto morendo per la prima volta – destino dopo destino dopo destino – [… che condivideremo, che le lascerò i suoi spazi, che la rassicurerò, che sarò discreto, che ci penserò io, che avremo tempo, che faremo un mutuo, che saremo soffio e non un comune tarassaco]. E invece stramazzo al suolo in una pozza colliquativa alta tre dita dall’odore nauseabondo circondato da stelline luminescenti, ovvero occhi di topi. Bene, sono nelle fogne.
Dai mie calcoli il suo condotto di scarico deve trovarsi a circa dieci o quindici metri da qui, probabilmente, visto da quanto sto camminando in questo pantano maleodorante, i miei calcoli sono sbagliati, nel frattempo ho stretto amicizia con un abitante del luogo, un dotto sorcetto occhialuto che dice di chiamarsi Psicopompo, e io gli dico: che nome è? E lui dice: chiamami Psichy, e quindi cammino con Psichy che non smette di ricordarmi di come lui e i suoi simili siano vittime di ottusi pregiudizi popolari, a me sta bene, però gradirei capire perché ’sto posto sembra più un labirinto invece che una fogna, ad ogni svolta c’è una galleria, ad ogni galleria un’altra svolta, vorrei solo andare da lei mi lascio scappare, e il mio nuovo amico arriccia il musetto aggiustandosi gli occhiali, sento che sta per dire qualcosa di importante, e infatti dice che non sa chi sia questa lei, che qua sotto non c’è nessuna lei, che sto fresco a pensarci, che, afferma un po’ contrito, non sa mica se riuscirò a mettere il naso fuori, be’, questo non è molto confortante Psichy, ma allora dimmi: perché hai deciso di accompagnarmi? E il topo dice: oh, è molto semplice, di mestiere faccio la guida turistica e sono qui per fare il mio lavoro, ovvero mostrarti le bellezze del posto, al che chiedo quali bellezze del posto visto che ho l’acqua di una latrina fino alle caviglie, ma la risposta me la dà un’insegna al neon intermittente che dice DIORAMA#1 con sotto una grossa vetrata almeno quattro per quattro, e Psichy dice: guarda, e io guardo: oltre la vetrata c’è una camera da letto, la cassettiera, i comodini, l’armadio, tutto design anni ’80, sul letto c’è un tipo che scopa una tipa da dietro, sono immobili, non respirano, Psichy ripete: guarda, e io guardo: quelli sono mamma e papà, lo penso solo ma il saggio roditore comunque replica: sì, sono loro, ah, e allora chiedo: e allora? E allora questo è l’inizio, aggiunge. Il mio inizio suppongo, abbastanza fico, però, senza voler insistere troppo, ribadisco il concetto: io sono qua per risalire su per un tubo e spiegare due cose ad una certa persona, ma il mio nuovo amico non mi considera nemmeno e aumenta il passo con quelle ditine rosa che mi ricordano le dita della signora del quarto piano, sicché aumento anche io la velocità e quasi non vedo una famigliola di altri roditori che sta prendendo il tè al tavolino: buonasera, dico, forse mi dicono altrettanto, non lo so, corro, urlo: ehi Psichy, fermo! E lui: ma se sono qua, un qua che sta dietro di me, sullo spigolo di una svolta che supero per vedere un’altra scritta: DIORAMA#2, di nuovo un vetro, all’interno un bambino seduto sopra una barella con un ginocchio sbucciato, il bimbo indossa un grembiule nero con un fiocco blu intorno al collo, piange, o meglio, so che sta per piangere perché quel piccolo studente sono io e ricordo bene lo sgambetto di un compagno più grande che mi fece ruzzolare nel cortile della scuola di fronte a intere classi che ci misero un attimo a puntare l’indice verso il sottoscritto sganasciandosi dalle risate, francamente questi dioma... questi diorma... insomma queste cose non mi piacciono troppo Psichy, gli dico, al che il topo quasi si risente: come puoi affermare ciò? Sono la quintessenza della tua specie, una bellissima galleria di memorie, presto andiamo alla prossima, e sgattaiola via che, per un ratto, sgattaiolare è un bell’ossimoro ma vaglielo a spiegare a quel sapientone e mi rimetto a rincorrere, ed è una corsa lunga, davvero lunga, dura ore, o giorni, sono debole e ho fame, bevo dell’acqua che spurga dal muro, sa di zolfo, due puntini rossi brillano laggiù in fondo, sono gli occhi della mia guida: sbrigati lumaca!, ed ecco l’insegna DIORAMA#3, questa me la aspettavo, abbastanza prevedibile, sì, c’è la navata centrale di una chiesa e sotto l’altare una bara, in realtà quella bara non l’ho mai vista davvero perché a dieci anni avevano deciso che ero troppo piccolo per poter assistere al funerale di papà, però l’ho immaginata tante volte, e l’ho sempre immaginata così come è oltre al vetro, ma insomma, no, sul serio, ora sono io che accelero, mi sono anche un po’ rotto, lo sciacquettio dei miei piedi rimbomba per tutte le umide gallerie, è un eco abnorme che risveglia migliaia di ratti e rattini creando un nuovo firmamento di stelle rubine, vorrei andare ancora più veloce di quanto sto andando, quasi quasi vorrei dissolvermi nella corsa, e scomparire, ritornare nella condizione che anticipa la nascita, ma invece mi fermo perché non ho più fiato, e sono stanchissimo, le mie gambe tremano, arriva Psichy, trafelato: sei pazzo amico mio? Vuoi che ti o mi venga un infarto? Vieni dài, guarda che bello, guarda DIORAMA#4, un’aula, solo un’aula, grande, l’aula magna della mia università dove ho discusso la tesi, resto fermo a contemplarla, e Psichy chiede: cosa provi? E io rispondo: provo... anzi, ho il ricordo di un sentimento, credo sia nostalgia, il raggiungimento di un obiettivo, la fiducia nel futuro, il rito di passaggio verso un altro periodo della vita, e, fa Psichy: e? E non riesco a capire perché tutta quella vivida speranza è stata poi disattesa, cioè lo so però non ce la faccio ad avere un quadro davvero completo della situazione, è cambiato qualcosa da quando ero un universitario? Questo lo sai soltanto tu, ribatte il topo sebbene io non abbia proferito parola, senti amico, gli dico, non è carino che tu mi legga nel pensiero, ma che vuoi?, dice, voi umani siete un album di patetismo in costante aggiornamento, e così sentenziando zampetta oltre, ancora per queste gallerie che ad ogni passo si alzano come se fossero delle cattedrali e ad un altro passo si rimpiccioliscono come i cunicoli di una miniera, sono stremato, inciampo e finisco con la faccia nell’acqua putrida, per un po’ sto così: seduto nella cloaca, il mio habitat naturale, la mia casa, poi mi rialzo, a rallentatore, e chiedo: ehi Psichy quando terminerà questo stillicidio? E lui: ti stai annoiando? Forse la tua esistenza non è stata troppo movimentata ma ho visto di peggio, e io: ok, facciamola finita ti prego, lasciami qua, ormai non ha più importanza arrivare a lei, guardami: sono un escremento!, e lui: fossi in te darei un’occhiata ancora a questo, e quindi, dal nulla, l’ennesima insegna al neon: DIORAMA#5, ed eccomi lì, che fumo una sigaretta stropicciata appoggiato alla balaustra di un poggiolo che dà su una stradina di un piccolo paese nel sud-est asiatico, l’unico viaggio che ho fatto, l’incontro con l’alterità, l’ubriacatura di altri sorrisi, salive, odori, lingue, e dico: basta Psichy, ti supplico, e lui dice: suvvia, dimmi, chi stavi aspettando affacciato a quel poggiolo? Non ho dubbi a proposito: una dolce illusione, di quelle che ti capitano una notte, e mai più, mai più... mai più... mai più... mai più...
Ora che sono solo, davvero solo, perché Psichy mi ha abbandonato, ora che non ho più nessuno, vago a casaccio in questo labirinto senza Minotauro, anche se, forse, il Minotauro sono io. La fame, il sonno, la stanchezza e qualunque altro bisogno fisiologico è sparito, devo avere superato un certo confine, senza accorgermene. Non so se sono già morto, se lo sarò tra poco, o se lo sarò quando farò parte del DIORAMA#6 che non ha vetro, che mi invita ad entrare, e che è la riproduzione in scala 1:1 del mio giardino. L’annaffiatoio di plastica, gli gnomi di ceramica, il rubinetto arrugginito, l’aiuola malconcia, il casotto degli attrezzi, la mia sdraio, la mia bella sdraio, e sopra di essa un canale luminoso che piove dall’alto in cui balla un pulviscolo aureo. Entro. Arranco. Mi trascino. Mi sdraio sulla sdraio. Proprio sotto il fascio di particelle. Quando apro gli occhi il mio cielo non è più l’occhio del gatto, ma è la tua fica, contornata dallo smalto bianco del water che vedo da quaggiù, e un liquido caldo e giallo precipita lento, senza gravità, sulla mia fronte, scivola ai lati del naso: grazie per avermi dato delle lacrime. E prima che tu finisca, prima che tu ti rialzi, che ti ripulisca con la carta igienica, che ritorni a fare sovrappensiero le normali cose della quotidianità, prima che tu richiuda la tavoletta spegnendo per sempre quest’ultima proiezione che, inconsapevolmente per te, ci lega, prima che, quindi, io venga mangiato dalle tenebre, ti sussurro che

che insieme siamo luce

che insieme siamo un intero

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