Quando
chiudo gli occhi vedo fiche, solo fiche, un turbinio di fiche:
pendule, arrossate, immonde, atre, callose, purulente, cancrenose,
slabbrate, impelosite, sfrattagliate, prolassate, deturpate, mi
accerchiano con il loro afrore, mi vogliono inglobare per soffocarmi
dentro quelle pareti cavernose e bagnaticce, sono ovunque,
svolazzano, strisciano, boccheggiano a centinaia, ma so che lì in
mezzo, la tua, di fica, non c’è, quando il cielo riapre il suo
occhio felino un riflesso dal tapetum lucidum turchino saetta verso l’escremento secco che si riscalda sopra ad una sdraio di plastica
in mezzo ad un giardino disordinato, quell’escremento sono io, e
lei non è troppo lontana, è giusto nell’altro giardino, quello
oltre la strada pedonale, protetto da una cancellata che qualche
inquilino precedente ha ricoperto con dell’edera finta, la mia di
edera invece è vera e per fortuna nella sua lenta avanzata
perimetrante ha lasciato scoperto un buchino nel quale poggio un
periscopio trasparente che mi permette di vederla da quaggiù, da
questo abisso pieno di statue sul fondale che implorano la luce a
braccia alzate, e io so che lei sta arrivando quando sento un
tintinnio di chiavi che puntualmente tira fuori dalla tasca poco
prima di infilarle nella toppa del portoncino di metallo, poi non la
vedo più, i capelli biondi spariscono al di là del rampicante
plastificato, e allora osservo la consistenza fecale che mi dà forma
e odore, senza-forma puzzolente, scarto, deiezione sciolta che frigge
sotto il sole di mezzogiorno, delle mosche, attirate dal prelibato
banchetto, ronzano ossessionate fino a quando la voce di mia madre,
da lontano, dice che è pronto e allora mi muovo lentamente lasciando
una scia di muco marrone sulla quale le mosche si avventano golose,
giro la manopola di ottone della portafinestra, l’occhio cosmico
del gatto si è già rivolto altrove, ora, sopra di noi, rimane il
buio.
La signora
del quarto piano, cenciosa e giuliva, sempre addobbata con suoi pizzi
da centrotavola che mette sulle spalle, cenciosa negli innumerevoli
strati di abiti che porta addosso anche in estate, sa di caramella
Rossana, sempre, un tripudio zuccheroso la precede ed
ectoplasmaticamente la fa presente anche se non c’è, il suo
appartamento è di marzapane, la cassapanca, antichissima, di puro
cioccolato fondente, i suppelletteli, le carabattole che popolano
ogni ripiano disponibile sono meringhe finemente lavorate, e lei
ride, con molti più denti dei quali è normalmente dotato un essere
umano, e cammina sulle dita dei piedi che sono agili come le dita di
due mani che suonano il pianoforte, le dico che sono venuto da lei
perché mamma mi ha detto che il computer le fa le bizze e io, che
non so aggiustare i computer, sono stato spedito lì perché
anagraficamente dovrei essere in grado di farlo, così mi siedo alla
scrivania ricoperta di una glassa appiccicosa e accendo un vecchio pc
che ronza stanco, la signora del quarto piano arriva con un vassoio
pieno di pasticcini impiramidati, simulo impegno e dedizione nel
lavoro che non so fare mentre allungo il collo dalla finestra e
guardo giù, che poi è sempre un su, e riguardo giù, nel suo
giardino, che da lì è giusto un rettangolo piastrellato e attendo
con speranza di vederla comparire, la ventola del computer si
accende, comincia a fare un rumore del diavolo, ecco, dice la signora
che spunta con un’enorme torta alla panna, fa sempre così, ma io
rispondo che non vedo niente, controlla meglio ragazzo mio, e ingolla
un bicchierone di sciroppo alla menta, controllo meglio: la porta che
dà sul suo giardino si apre, il mio cuore si ferma, la ventola
aumenta di intensità i giri, il case trema tutto facendo vibrare
delle foto ritraenti gelati e ghiaccioli appese alla parete, appare
un paio di jeans strappati dentro ad un busto largo e squadrato, e
due braccia, grosse, muscolose, tatuate da ghirigori che arrivano al
collo, ventola in fusione, terremoto in atto, attenzione, terremoto
in atto, allontanarsi immediatamente dall’edificio, ripeto,
allontanarsi immediatamente dall’edificio. Be’ signora, purtroppo
credo che non ci sia più niente da fare. Ma come? Che peccato!,
gradisci un po’ di sacher appena sfornata?
Me aquilone,
me palloncino di elio, vi prego tagliatemi il filo, fate sì che io
possa ascendere, salire in alto non per evitare di vedere un altro uomo che esce dalla sua casa, ma per non essere visto, per svanire indolore
nel taglio verticale che se ne sta lassù, nella pupilla allungata
del gattone astrale e accedere così nel suo cervello, nella materia
spugnosa sopra la quale orbitano miliardi di pianetini che
instancabili, a loro volta, ruotano intorno alle loro piccole lune,
seguendo le leggi di una fisica sconosciuta, attraverso onde
celebrali, onde gravitazionali, onde di un mare che mi trascina
leggero, me essere non più essere, e quindi volteggiare libero,
planando sopra le biglie azzurrognole che compongono questa parte di
universo gattesco, riempendomi dei colori di altre vite che vedono
giusto un’ombra veloce passare sopra le teste, bevendo dai loro
cuori, dormendo nelle loro anime, me spugna, me imbuto, me grondaia,
sentire che tutto possa convergere nel nulla che sono, sentire,
semplicemente, tutto, venirne invasi, in un divenire continuo dove la
speranza ha il sapore della prima persona che hai baciato nella tua
vita e dove la paura del futuro è lo studio di un notaio che ti
riceve con la cravatta blu, volare, ancora, altrove, raccogliendo la
voce spezzata di un centenario che vede già il suo angelo seduto
sulla poltrona davanti a lui, accarezzando la nuca di un neonato dal
cranio sottilissimo e traslucido che lascia intravedere altri
universi e altri mondi, e vivere, me non vivente, nelle esistenze
degli altri per farle un po’ mie, per cercare di capire il senso di
un universo di cui posso diventare il centro, il punto in mezzo agli
occhi del gatto dove il suo pelo tigrato forma una M, esattamente nel
vertice basso tra \ e /, nell’ipocentro pieno di giardini, siepi,
aiuole, roseti, gazebi, alberelli di limone, ginestre, bouganville,
sediole, barbecue, vasi, terriccio, ma anche solo un pavimento di
piastrelle lisce, un asciugamano, una Coca-Cola, della musica sputata
fuori da uno smartphone, poi, nell’immensa volta celeste, nel
gatto-galassia, la voce di mamma si espande solenne, è la voce di un
dio minore che dice di alzare le chiappe che è pronto, e allora io
riparto, me boomerang, me povero me, all’indietro, in una
regressione spaziale che mi vomita fuori, uno scarto interplanetario
che spurga dall’occhio felino come una lacrima, come una caccola
attaccata ad un lungo filo che mi fa rinculare ad una velocità
inumana, di nuovo lì, nel cielo conosciuto, sopra i tetti
conosciuti, un inesorabile ritorno casalingo che mi rinchioda alla
sdraio, me deiezione, me merda rinsecchita e ricoperta da biondi
ciuffi setolosi, me stoppa. A tavola, minestra, un lago verde e denso
da dove affiorano misteriosi relitti, impugno il cucchiaio, il dorso
della paletta riflette la mia faccia, e la mia faccia riflessa, non
la mia, dice che quel cucchiaio mi servirà.
E scavo
scavo scavo scavo, il cucchiaio solleva la terra che mi butto alle
spalle tracciando continui archi ocra, più scendo e più – strato
dopo strato dopo strato – sento freddo, vermi obesi si affacciano
per provare a comprendere il perché di tale trambusto, fossili e
conchiglie preistoriche, scheletri di cavallucci marini
antidiluviani, scombino un ecosistema madido dove vecchie radici
bianche, fini, si reticolano in una profondità che proprio ora –
scucchiaiata dopo scucchiaiata dopo scucchiaiata – sto andando a
violare. Ho un piano, un piano cristallino, sarà la prima volta che
uno stronzo, invece di precipitare giù dal tubo di un cesso, lo
risalirà, e quando sarò in casa sua le spiegherò come stanno le
cose, quanto è importante per me, che [altri dettagli in
seguito...]. E sterro sterro sterro sterro, guardo il
gatto-cielo-occhio che è ormai un tondino blu molto più distante
del solito, sono alla base della mia torre tumulata, il cucchiaio,
piegato a morte, non mi serve più, poggio i piedi sulla calotta
cranica del pianeta, sulla dogana dell’ovulo femminile che –
scodata dopo scodata dopo scodata – decido di fecondare in quanto
aitante spermatozoo dotato di autocertificazione: posso sfondare, e
sfonda sfonda sfonda sfonda, al freddo di prima si sostituisce un
tepore avvolgente, in pratica scivolo, risucchio, aspiro, ciaociao,
sento solo la terra del mio giardino richiudersi seppellendomi, ma io
ho oltrepassato la membrana e un suono sonico, veloce e perforante,
si diffonde nel cervello che adesso si gonfia e si sgonfia come il
mantice di una fisarmonica, pulsa nel cranio, enorme lui e feto io,
fulmini globulari esplodono in bagliori d’accecante bellezza, non è
che galleggio, non è che volteggio, ma, come sempre, cado, è una
vita in verticale la mia, senza ascesa, è un tracollo, forse sto
nascendo di nuovo – respiro dopo respiro dopo respiro –, forse
sto morendo per la prima volta – destino dopo destino dopo destino –
[… che condivideremo, che le lascerò i suoi spazi, che la
rassicurerò, che sarò discreto, che ci penserò io, che avremo
tempo, che faremo un mutuo, che saremo soffio e non un comune
tarassaco]. E invece stramazzo al suolo in una pozza colliquativa
alta tre dita dall’odore nauseabondo circondato da stelline
luminescenti, ovvero occhi di topi. Bene, sono nelle fogne.
Dai mie
calcoli il suo condotto di scarico deve trovarsi a circa dieci o
quindici metri da qui, probabilmente, visto da quanto sto camminando
in questo pantano maleodorante, i miei calcoli sono sbagliati, nel
frattempo ho stretto amicizia con un abitante del luogo, un dotto
sorcetto occhialuto che dice di chiamarsi Psicopompo, e io gli dico:
che nome è? E lui dice: chiamami Psichy, e quindi cammino con Psichy
che non smette di ricordarmi di come lui e i suoi simili siano
vittime di ottusi pregiudizi popolari, a me sta bene, però gradirei
capire perché ’sto posto sembra più un labirinto invece che una
fogna, ad ogni svolta c’è una galleria, ad ogni galleria un’altra
svolta, vorrei solo andare da lei mi lascio scappare, e il mio nuovo
amico arriccia il musetto aggiustandosi gli occhiali, sento che sta
per dire qualcosa di importante, e infatti dice che non sa chi sia
questa lei, che qua sotto non c’è nessuna lei, che sto fresco a
pensarci, che, afferma un po’ contrito, non sa mica se riuscirò a
mettere il naso fuori, be’, questo non è molto confortante Psichy,
ma allora dimmi: perché hai deciso di accompagnarmi? E il topo dice:
oh, è molto semplice, di mestiere faccio la guida turistica e sono
qui per fare il mio lavoro, ovvero mostrarti le bellezze del posto,
al che chiedo quali bellezze del posto visto che ho l’acqua di una
latrina fino alle caviglie, ma la risposta me la dà un’insegna al
neon intermittente che dice DIORAMA#1 con sotto una grossa vetrata
almeno quattro per quattro, e Psichy dice: guarda, e io guardo: oltre
la vetrata c’è una camera da letto, la cassettiera, i comodini,
l’armadio, tutto design anni ’80, sul letto c’è un tipo che
scopa una tipa da dietro, sono immobili, non respirano, Psichy
ripete: guarda, e io guardo: quelli sono mamma e papà, lo penso solo
ma il saggio roditore comunque replica: sì, sono loro, ah, e allora
chiedo: e allora? E allora questo è l’inizio, aggiunge. Il mio
inizio suppongo, abbastanza fico, però, senza voler insistere
troppo, ribadisco il concetto: io sono qua per risalire su per un
tubo e spiegare due cose ad una certa persona, ma il mio nuovo amico non mi considera nemmeno e aumenta il
passo con quelle ditine rosa che mi ricordano le dita della signora
del quarto piano, sicché aumento anche io la velocità e quasi non
vedo una famigliola di altri roditori che sta prendendo il tè al
tavolino: buonasera, dico, forse mi dicono altrettanto, non lo so,
corro, urlo: ehi Psichy, fermo! E lui: ma se sono qua, un qua che sta
dietro di me, sullo spigolo di una svolta che supero per vedere
un’altra scritta: DIORAMA#2, di nuovo un vetro, all’interno un
bambino seduto sopra una barella con un ginocchio sbucciato, il bimbo
indossa un grembiule nero con un fiocco blu intorno al collo, piange,
o meglio, so che sta per piangere perché quel piccolo studente sono
io e ricordo bene lo sgambetto di un compagno più grande che mi fece
ruzzolare nel cortile della scuola di fronte a intere classi che ci
misero un attimo a puntare l’indice verso il sottoscritto sganasciandosi dalle risate,
francamente questi dioma... questi diorma... insomma queste cose non
mi piacciono troppo Psichy, gli dico, al che il topo quasi si
risente: come puoi affermare ciò? Sono la quintessenza della tua
specie, una bellissima galleria di memorie, presto andiamo alla
prossima, e sgattaiola via che, per un ratto, sgattaiolare è un
bell’ossimoro ma vaglielo a spiegare a quel sapientone e mi rimetto
a rincorrere, ed è una corsa lunga, davvero lunga, dura ore, o
giorni, sono debole e ho fame, bevo dell’acqua che spurga dal muro,
sa di zolfo, due puntini rossi brillano laggiù in fondo, sono gli
occhi della mia guida: sbrigati lumaca!, ed ecco l’insegna
DIORAMA#3, questa me la aspettavo, abbastanza prevedibile, sì, c’è
la navata centrale di una chiesa e sotto l’altare una bara, in
realtà quella bara non l’ho mai vista davvero perché a dieci anni
avevano deciso che ero troppo piccolo per poter assistere al funerale
di papà, però l’ho immaginata tante volte, e l’ho sempre
immaginata così come è oltre al vetro, ma insomma, no, sul serio,
ora sono io che accelero, mi sono anche un po’ rotto, lo
sciacquettio dei miei piedi rimbomba per tutte le umide gallerie, è
un eco abnorme che risveglia migliaia di ratti e rattini creando un
nuovo firmamento di stelle rubine, vorrei andare ancora più veloce
di quanto sto andando, quasi quasi vorrei dissolvermi nella corsa, e
scomparire, ritornare nella condizione che anticipa la nascita, ma
invece mi fermo perché non ho più fiato, e sono stanchissimo, le
mie gambe tremano, arriva Psichy, trafelato: sei pazzo amico mio?
Vuoi che ti o mi venga un infarto? Vieni dài, guarda che bello,
guarda DIORAMA#4, un’aula, solo un’aula, grande, l’aula magna
della mia università dove ho discusso la tesi, resto fermo a
contemplarla, e Psichy chiede: cosa provi? E io rispondo: provo...
anzi, ho il ricordo di un sentimento, credo sia nostalgia, il
raggiungimento di un obiettivo, la fiducia nel futuro, il rito
di passaggio verso un altro periodo della vita, e, fa Psichy: e? E
non riesco a capire perché tutta quella vivida speranza è stata poi
disattesa, cioè lo so però non ce la faccio ad avere un quadro
davvero completo della situazione, è cambiato qualcosa da quando ero
un universitario? Questo lo sai soltanto tu, ribatte il topo sebbene
io non abbia proferito parola, senti amico, gli dico, non è carino
che tu mi legga nel pensiero, ma che vuoi?, dice, voi umani siete un
album di patetismo in costante aggiornamento, e così sentenziando
zampetta oltre, ancora per queste gallerie che ad ogni passo si
alzano come se fossero delle cattedrali e ad un altro passo si
rimpiccioliscono come i cunicoli di una miniera, sono stremato,
inciampo e finisco con la faccia nell’acqua putrida, per un po’
sto così: seduto nella cloaca, il mio habitat naturale, la mia casa,
poi mi rialzo, a rallentatore, e chiedo: ehi Psichy quando terminerà
questo stillicidio? E lui: ti stai annoiando? Forse la tua esistenza
non è stata troppo movimentata ma ho visto di peggio, e io: ok,
facciamola finita ti prego, lasciami qua, ormai non ha più
importanza arrivare a lei, guardami: sono un escremento!, e lui:
fossi in te darei un’occhiata ancora a questo, e quindi, dal nulla,
l’ennesima insegna al neon: DIORAMA#5, ed eccomi lì, che fumo una
sigaretta stropicciata appoggiato alla balaustra di un poggiolo che
dà su una stradina di un piccolo paese nel sud-est asiatico, l’unico
viaggio che ho fatto, l’incontro con l’alterità, l’ubriacatura
di altri sorrisi, salive, odori, lingue, e dico: basta Psichy, ti
supplico, e lui dice: suvvia, dimmi, chi stavi aspettando affacciato
a quel poggiolo? Non ho dubbi a proposito: una dolce illusione, di
quelle che ti capitano una notte, e mai più, mai più... mai più...
mai più... mai più...
Ora che sono
solo, davvero solo, perché Psichy mi ha abbandonato, ora che non ho
più nessuno, vago a casaccio in questo labirinto senza Minotauro,
anche se, forse, il Minotauro sono io. La fame, il sonno, la
stanchezza e qualunque altro bisogno fisiologico è sparito, devo
avere superato un certo confine, senza accorgermene. Non so se sono
già morto, se lo sarò tra poco, o se lo sarò quando farò parte
del DIORAMA#6 che non ha vetro, che mi invita ad entrare, e che è la
riproduzione in scala 1:1 del mio giardino. L’annaffiatoio di
plastica, gli gnomi di ceramica, il rubinetto arrugginito, l’aiuola
malconcia, il casotto degli attrezzi, la mia sdraio, la mia bella
sdraio, e sopra di essa un canale luminoso che piove dall’alto in
cui balla un pulviscolo aureo. Entro. Arranco. Mi trascino. Mi sdraio
sulla sdraio. Proprio sotto il fascio di particelle. Quando apro gli
occhi il mio cielo non è più l’occhio del gatto, ma è la tua
fica, contornata dallo smalto bianco del water che vedo da quaggiù, e un
liquido caldo e giallo precipita lento, senza gravità, sulla mia
fronte, scivola ai lati del naso: grazie per avermi dato delle
lacrime. E prima che tu finisca, prima che tu ti rialzi, che ti ripulisca
con la carta igienica, che ritorni a fare sovrappensiero le normali
cose della quotidianità, prima che tu richiuda la tavoletta
spegnendo per sempre quest’ultima proiezione che, inconsapevolmente
per te, ci lega, prima che, quindi, io venga mangiato dalle tenebre,
ti sussurro che
che insieme siamo luce
che insieme siamo un intero
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