venerdì 29 maggio 2020

DAU. Nora Mother


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica
Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. NORA MOTHER

Si iniziano a comprendere i contorni del pannello espositivo pensato per DAU, è plausibile che di tutti i vari pezzi dell’epico progetto ve ne saranno alcuni improntati a raccontarci una complessa universalità che abbraccia un cospicuo numero di temi (vedi DAU. Degeneration, 2020) mentre altri si occuperanno più della singolarità di un personaggio (vedi DAU. Natasha, 2020). Mettendola così è facile capire dove poter collocare DAU. Nora mama (2020), la Nora del titolo non è altro che la moglie di Landau, quindi, si penserà subito, finalmente ci sarà un focus su colui che dovrebbe essere il protagonista principale? No, non proprio, Ilya Khrzhanovskiy continua ad eludere l’aspettativa biografica, qui il centro della scena se lo accaparrano la consorte e la suocera, il grande fisico nato a Baku, seppur presente, è assente, fantasmatico, accigliato, stanco, in sostanza è come se non ci fosse. Cronologicamente torniamo indietro negli anni, il Dau che ritroviamo non è il vecchio decrepito di Degeneration ma uno scienziato nel pieno della carriera che vive con la moglie ed il figlioletto in un appartamento dell’Istituto, l’elemento di disordine introdotto dal regista è rappresentato dalla madre di Nora invitata a passare qualche giorno con la coppia. All’interno del solito allestimento realistico le tensioni famigliari emergono in maniera abbastanza efficace, la madre ha funzione di coscienza critica che rompe l’illusorio idillio coniugale, si percepisce, per la prima volta, unattenzione al set che oltre ad essere la precisa ricostruzione di un’epoca è anche attributo che integra la storia, la casa è grossa ma spoglia, vuota, fredda (l’assenza di calore viene più volte ribadita), una specie di metafora della relazione proposta. Abbandonata la brutalità, i rimandi socio-politici e le riflessioni scientifico-filosofiche, Nora Mother assume, inaspettatamente devo dire, i contorni di un melodramma da camera, un Kammerspiel per pochi intimi concentrato sul rapporto madre-figlia che nella torrenziale conversazione lunga praticamente quanto l’opera stessa diviene una seduta di autoanalisi emotiva che invade Nora di dubbi e paure.

Siamo in presenza di un episodio “minore”, non vi sono riferimenti alle attività dell’Istituto né a quelle di Landau, l’azione, per così dire, si svolge nel chiuso ambiente domestico (ad esclusione di qualche immagine esterna innevata), se si accetta la natura ancillare del film che, al pari degli altri, si subordina al mastodontico disegno di Khrzhanovskiy, è possibile vederlo come una deviazione intima e quindi umana dai macro-argomenti che presumibilmente attraversanoo in toto il gigante-DAU, in tal senso non abbiamo altra scelta che non sia quella di volgerci verso il magmatico legame tra mamma e figlia, viste le premesse concettuali non stupisce il fatto che il tasso di verità sprigionato dalle due si riveli piuttosto alto, sia quando si scontrano fino alle scintille sia quando si arrendono reciprocamente ad una forma d’amore che ribolle tipicamente nei consanguinei, più che altro, vedendo i movimenti in attacco della madre, gli arroccamenti in difesa della figlia, le rese, le crisi di nervi, l’odio e gli slanci sentimentali, entrambe tendono ad assomigliarsi così tanto da essere l’una la versione dell’altra divise soltanto dallo scorrere del tempo. È una faccenda nota, le colpe dei genitori, insieme agli errori e ai sogni disillusi, ricadono sulla prole che non inverte l’andazzo, anzi, ne incrementa l’irreversibilità agli occhi di chi ha procreato, sicché Nora, ad un certo punto, si trova a ragionare su di sé e su Landau, sull’incertezza amorosa nei riguardi del marito, il che, in fondo, rende la pellicola una sitcom stalinista che, se vogliamo un po’ alleggerire la questione, ha anche qualche momento che con altri registri sarebbe ilare perché usa qualche stereotipo del settore, tipo il coniuge a cui pesa la visita della suocera o quest’ultima che priva di freni inibitori fa la ramanzina al genero appena sveglio.

C’è però un altro aspetto su cui vale soffermarsi un attimo, Nora Mother è, dei tre film finora visionati, quello che si disallinea un poco dalla teoria filmica di Khrzhanovskiy. Nel vorticoso impianto realtà vs. finzione qua ci sono dei paletti più fissi: innanzitutto, impressione soggettiva, c’è minore spazio per l’improvvisazione, i novanta minuti di girato risultano studiati al punto da far pensare ad una sceneggiatura capace di dettare delle linee indirizzanti, non che la cosa pesi perché in generale la naturalità delle situazioni spicca intonsa, però in confronto alle altre manifestazioni dauiane delle divergenze d’impostazione ci potrebbero essere. Ma comunque non è questo il punto, di base bisogna asserire una stupidaggine, ovvero che inevitabilmente, quando Landau è in scena, fa capolino un’inevitabile falsificazione per evidente impossibilità di avere il vero scienziato sullo schermo, idem per la moglie. Sembrerà una stronzata però in Natasha e soprattutto in Degeneration era incredibile il fatto che i vari fisici ed esperti fossero davvero tali anche nella vita vera e che il loro coinvolgimento nella finzione provocava un grande buco nero percettivo. Il fatto che Dau sia impersonato da Teodor Currentzis, un direttore d’orchestra ateniese che si è affermato in Russia, e Nora (all’anagrafe della Storia Kora) da Radmila Schegoleva, unica attrice professionista del cast, fa perdere qualche grammo di stupore all’assetto edificato da Khrzhanovskiy, sebbene, per dovere di cronaca, va segnalato che l’interprete della mamma di Nora si chiama Lydia Shchegoleva il che fa supporre che sia la vera madre di Radmila, giusto per non venire mai troppo meno al proprio credo.

E dunque, si continua con l’esplorazione di DAU? Perbacco sì! Avanti con il prossimo: DAU. Three Days (2020).

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