lunedì 9 dicembre 2019

Washingtonia

Ha stoffa Konstantina Kotzamani, lo sapevamo da prima con Pigs (2011), lo sappiamo ancora di più adesso con le precipue visioni di Limbo (2016) [1] e Washingtonia (2014), altra tappa di un viaggio autoriale per cui si attende con grande speranza un lungometraggio di debutto, nel frattempo, concentrandoci sul quinto corto della regista nata a Komotini, una regione della Grecia limitrofa alla Bulgaria, si può annotare uno stile che tange un certo cinema europeo che potrebbe far capo a quel vecchio satanasso di Ulrich Seidl (come riportato dall’articolo biografico su Lo Specchio Scuro, link) o anche, ma in modo meno evidente, a quello di Pedro Costa per l’intenzione di voler ritrarre in un contesto occidentale elementi così esotici. In realtà al di là di tali suggestioni (che non sono finite, un ulteriore e più superficiale rimando è il primo piano della giraffa che fa parecchio Bestiaire, 2012) quello che si profila è un cinema personalissimo equipaggiato di un’estetica qualitativamente rimarchevole e di una forza narrativa, subordinata all’impianto formale, che non è di immediata assimilazione, ciò è un attributo che chi scrive giudica positivamente e che rappresenta il fulcro del fare-Kotzamani. Ce lo aveva già suggerito Pigs con tutto il suo impatto visivo, l’autrice ellenica sa dare gli input giusti allo spettatore senza che vi sia una consequenzialità netta degli eventi, delle cose accadono, a volte in maniera inconciliabile a volte no, eppure un flusso, un canale, un’energia si crea comunque da dove è facile, nell’ossimoro di una complessità a cui non si è mai preparati, captare la Visione piena, quella che abbraccia i significati nascosti sotto un’eccellente superficie.

In Washingtonia la strada è sghemba, dislocante: il narratore interno (un personaggio, appunto, costiano) descrive in francese con dovizia naturalistica le caratteristiche strutturali delle giraffe e delle palme, il set, intensificato da caldi tramonti, ci trasmette un “senso d’Africa” per poi virare sull’effettiva location greca del girato, inoltre esseri umani a dir poco bizzarri si rapportano a fatica tra di loro, madre e figlio, madre e cani: c’è, attraverso metodi e tempi adeguati, un qualcosa dentro al film che mira alla profondità da una posizione laterale, spostata di qualche metro, ed il risultato, che palpita nella materia grigia spettatoriale, non lesina uno slancio poetico evidenziato dalle varie recensioni in Rete: la Kotzamani, sebbene sottotraccia, compie un parallelo interiore tra gli organi vitali di tre regni esistenziali: animale, vegetale e umano dove il muscolo cardiaco di ognuna di queste tre realtà è messo sotto scacco da elementi superiori (l’afa estiva che non permette di sentire il ritmo cardiaco della giraffa; il malefico punteruolo rosso che punta al carnoso cuore delle palme; il disamore della mamma per il proprio figliolo in favore di un amore... cinofilo), ciononostante il battito non muore e nella scena gemella conclusiva possiamo udire la pulsazione che si diffonde sullo schermo. Quale sia la necessità di quanto appena interpretato (col beneficio del dubbio come ogni esegesi che si rispetti), non saprei dirvi, a volte fa semplicemente piacere che certi manufatti artistici esistano per ridestare l’inessenziale stato di meraviglia che il cinema può stimolare.
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[1] Lultima immagine di Washingtonia con la testa giraffesca che sbuca da fondo video sul cielo azzurro è praticamente la prima di Limbo con un cambio del soggetto ripreso.

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