lunedì 23 dicembre 2019

Surire

Da Twentynine Palms (2003) a Jauja (2014) passando per chissà quant’altri film che bellamente ignoro, il cinema si è sovente trovato a suo agio in zone desertiche, forse perché è in luoghi del genere che il binario dell’uomo, sempre così solo!, e quello dello spazio, sempre così vasto!, arrivano a sfiorarsi in scintille che spesso hanno illuminato. Con Surire (2015) si aggiunge un altro titolo alla categoria “umanità nel deserto”, anche se, va detto, ci troviamo in un’area più documentaristica rispetto alle due pellicole sopramenzionate, il lavoro compiuto dal duo semisconosciuto (almeno dal sottoscritto) Iván Osnovikoff e Bettina Perut si colloca geograficamente sul Salar de Surire, un deserto di sale bianco ubicato nel Cile settentrionale al confine con la Bolivia, mentre cinematograficamente stende sullo schermo una triplice concatenata veduta: il ritratto autoctono di alcuni villici che parlano una lingua dimenticata e abitano in capanne alla fine del mondo, lo stallo naturale di un paesaggio coperto dal silenzio (è un dettaglio che colpisce: il silenzio esteso ed imperforabile), gli unici segni di un’attività “moderna” come quei camion-micro machines che ogni tanto scompaiono ed appaiano nel biancore del panorama. I primi due aspetti sono comunque quelli che più caratterizzano l’opera, l’accenno alle estrazioni di sale e al via vai dei tir è giusto un contorno che si apprende soltanto da un punto di vista esclusivamente visivo.

Quindi focalizzazione sugli esseri umani in un habitat di struggente bellezza ma non troppo funzionale in quanto a vivibilità, e allora vediamo (anzi: leggiamo) le rughe di questi vecchietti come gli anelli degli alberi e possiamo immaginare, grazie al cinema, della traiettoria che la loro esistenza ha preso fin dall’inizio, non una vita facile si noterebbe, sebbene in fondo ci si può chiedere: chi è l’uomo occidentale e quali titoli possiede per giudicare la vita altrui? Surire si chiude non credo a caso sull’immagine di alcuni turisti che non paiono minimamente connessi con l’ambiente, alcuni sfrecciano in bicicletta altri si preparano a fare un tuffo in un laghetto, però la loro vita sarà così facile…
Al di là di sterili elucubrazioni esistenzial-relativistiche, parlando di facilità non si può non citare quanto alla fine sia stato agevole per Osnovikoff e Perut girare Surire, e non mi riferisco alle trafile burocratiche o a quelle economico-tecnico-logistiche che indubbiamente avranno impegnato tutto il team produttivo, quanto al fatto che lungometraggi così si autosostentano da soli, hanno soltanto bisogno di quella consona professionalità che fornisca loro una degna cornice e poi per il resto esistono tranquillamente da sé, il loro tasso di fascinazione che esprime un esotismo magnetico è lì dalla notte dei tempi e lì rimarrà, con o senza dei piedi vicini alla calcificazione che calpestano il suolo riarso. Voglio dire, in sostanza, che nel pieno rispetto dell’attività registica qui ci sono molte istantanee suggestive la cui grazia è al massimo registrata dal cinema e riproposta di riflesso allo spettatore, il che è accettabile, soprattutto se fatto con una certa attitudine contemplativa, però… eh, posso continuare a sparlare ad oltranza ma il fatto è che Surire sembra una versione un po’ meno laccata del cinema di Brosens & Woodworth, molto stile, non abbastanza cuore.

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