mercoledì 25 dicembre 2019

Lucía

Tipica, nella sua deliziosa atipicità, opera prima proveniente dal Sudamerica, precisamente dal Cile, che ci ricorda tanti altri film passati su questi atri schermi, non faccio i nomi, è tutto qui, da qualche parte, e anche Lucía (2010) è qui nel taschino dei ricordi perché è un oggetto che ha le carte in regola per farsi apprezzare in quanto esprime se stesso con una dignità e un contegno che toccano certi tasti posti non proprio in superficie. Che poi la storia è di quelle semplici semplici, abbiamo una figlia e un padre che vivono insieme e che economicamente non se la passano bene, lei lavora in una specie di sartoria, lui è forse pensionato o più probabilmente disoccupato. Niles Atallah ci fa accedere nel loro mondo attraverso piani fissi che disegnano l’umiltà dell’esistenza che conducono, a tratti monotona, a tratti piatta. La casa, attraverso la visuale del regista, si fa guscio che accoglie la donna a fine giornata e, al contempo, catacomba disordinata immersa in penombre dal sapore agrodolce, di una Fine che non c’è ancora ma che incombe. Lucía non ci dice nulla in modo diretto di Lucía, né di suo papà, piuttosto: intuiamo grazie a sfumature, dettagli, elaborazioni mentali post-visione. Parrebbe che nella quotidianità delle giornate la donna abbia la speranza di un futuro diverso, che può essere una casa nuova (per strada abbondano gli annunci immobiliari) o un nuovo paio di occhiali, di contro l’uomo è arenato nel presente, se non nel passato, e difatti gli occhiali nuovi non li usa, preferisce quelli vecchi che utilizza per guardare cose vecchie come la medesima telenovela di ogni santo giorno.

Atallah non si accontenta però del ritrattino intimo (che già sarebbe soddisfacente), è uno che, nonostante fosse agli esordi, dimostrava già una discreta intemperanza e quindi piazza degli intermezzi in stop-motion all’interno del girato. In queste scene è presente sempre e soltanto Lucía e, a conti fatti, non hanno un peso effettivo nella trama, ma, del resto, chi se ne fotte della trama, per cui viva, ora e sempre, delle aperture del genere che amplificano il fascio del sensibile e che forniscono elementi chiari sullo status autoriale di Atallah il quale nel susseguente (e formidabile) Rey (2017) aumenterà gli strappi sull’irrazionale arrivando a picchi d’intensità non trascurabili. Comunque, non è solo una questione di scelte anticonvenzionali, c’è intelligenza anche nella sintassi proposta, nell’associare per esempio due scene che nella loro inconciliabilità fanno male. Nella prima, lunga e tutta ripresa con camera a mano, padre & figlia si recano a casa di un dottore conoscente vestiti da babbi natale per portare doni alla famiglia del medico, capiamo che la sceneggiata voluta per i nipotini si ripete da anni e capiamo anche che la realtà dei due protagonisti collide con quella benestante in cui si ritrovano a distribuire regali a chiunque, perfino alla cameriera, e la collisione, potente e inesorabile, avviene nella sequenza successiva dove i due consumano la cena di Natale nella cucina sgangherata della propria casa.

Dopodiché, nel suo essere piccolo e ultimo, c’è il cinema: un’inquadratura tsaiana descrive senza parole uno scorcio di solitudine che ha del commovente, nell’immobilità del padre di cui scorgiamo i piedi distesi sul letto, e di Lucía che dietro la porta semi aperta ascolta le registrazioni di quando era bambina, il Santo Natale si imbeve di tristezza. E non finisce qua: poco dopo ancora il passo uno giunge a distorcere la “realtà”, Atallah immette il sonoro esterno (un frinire di grilli) nell’interno domestico, è spaesamento, è la fine che arriva su una dissolvenza in nero, ma prima c’è un’ultima cosa da vedere, due occhi lucidi prossimi al pianto.

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