sabato 11 marzo 2017

Shikasha

Ci si ferma all’anno di produzione, il 2010, in fatto di assonanze tra Aramaki e Shikasha perché quest’ultimo è un lavoro con altri presupposti, vediamo brevemente quali: rispetto al corto coevo quello sotto esame è calibrato maggiormente per avere un effetto sorpresa nei confronti di chi guarda, lo spettatore assiste dunque a dieci minuti che si parametrano sul finale restituendo, perciò, una forma di narrazione più consueta ed accomodante; il fatto che sotto terra ci sia una donna legata ad un bambino e un gruppo di poliziotti che in superficie li cerca sono elementi di risalto, immediati, che di certo non aprono a quelle supposizioni che in Aramaki centravano il nostro occhio mentale. È sempre una faccenda di letteralità, l’uomo dentro la foresta agiva in modo incomprensibile riportando però tutto ad un “ordine” col suo gesto estremo, in Shikasha è l’accessibilità contenutistica a frenare ogni slancio, l’”ordine” è già insito nell’impostazione di Hirabayashi e si fatica ad andare oltre la normale fruizione. Niente di scandaloso, bisogna essere consapevoli però che Shikasha non è niente di più che un thriller mozzato del corpo, un Seven (1995) o un Memorie di un assassino (2003) senza premesse, senza indagine, solo l’apparizione fulminea dello scioglimento tramico.

Ma anche in questo caso pupille piantate sui titoli di coda: l’ultima immagine scombussola! È l’unico momento dove ci si avvicina ad un possibile tilt, esclusivamente intrafilmico, circoscritto nella storiaccia inscenata, ma comunque abile a fornire una significazione (beffarda) al film.
Presentato a Cannes 2010.

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