lunedì 25 novembre 2019

L'amore imperfetto

Un ventinovenne Giovanni Davide Maderna firma nel 2002 (o nel 2001 in base ad alcuni siti) la sua opera seconda dopo Questo è il giardino (1999), e senza aver potuto visionare l’esordio ma avendo assistito al Maderna che verrà, si può notare che il regista milanese, almeno ne L’amore imperfetto, all’inizio ha perseguito un modello di cinema disinteressato alle potenzialità insite nella forma per concentrarsi pressoché esclusivamente sugli attributi tramici, e questo non è mai un bene perché, ed è sempre il solito tedioso discorso, di cinema del genere se ne produce in quantità sufficiente a soddisfare il palato degli spettatori medi, a noi che cerchiamo di spingerci oltre il conoscibile proiezioni di tal fatta lasciano un deludente sapore insipido. Ci sono alibi come l’acerbità di Maderna che comunque nel suo piccolo propone un lavoro anche decorso, o come il periodo di tempo intercorso dalla data di uscita ad adesso in cui la settima arte si è così evoluta da rendere, oggi, L’amore imperfetto un prodotto quasi giurassico, e ci sono anche difetti come un dilatato torpore in cui la storia è calata, e ciò non riguarda la ricerca di un minimalismo da parte del regista quanto l’assenza di quell’intensità che anche registri più asciutti hanno saputo regalarci in passato, ecco tale carenza energetico-emozionale è ciò che ha maggior peso, più di un cast disomogeneo (legnoso Lo Verso, meglio la Belaustegui) e più di alcuni scambi dialogici davvero rigidi, freezati dalla finzione (quando il poliziotto fa apprezzamenti su Angela o nel flashback in macchina tra Sergio e la ragazzina suicida… brrr).

Quindi scordiamoci l’intraprendenza di Cielo senza terra (2010) e Carmela, salvata dai filibustieri (2012), forse ciò che Maderna non è riuscito a raggiungere con questo film verrà sfiorato anni dopo da Mirko Locatelli ne I corpi estranei (2013), perché anche nell’Amore imperfetto c’è un approccio, sebbene non convincente al 100%, ad un concetto arbitrario come la fede al quale si collega l’eventualità del miracolo, purtroppo non ci si spinge in aree di trascendenza, e, c’entrerà poco, ma essendo che  il direttore della fotografia era Yves Cape (collaboratore stretto di Dumont), il tutto poteva essere gestito meglio nella direzione “oltre il concreto”, concretezza che è invece l’aia in cui la pellicola razzola maggiormente dividendosi tra una pista semi-investigativa, un’altra politica con i risvolti legati alle implicazioni etiche della coppia verso il figlio, e un’altra ancora drammatico-sentimentale con esplorazione (poco profonda) della tragedia genitoriale sullo schermo, scontato rimarcare che nessuna delle tre tracce, men che meno la prospettiva spirituale, sanno incidere realmente: l’incedere sottotono, il non raggiungimento di una piena verticalità e una maturazione stilistica ancora da venire, non hanno reso indimenticabile L’amore imperfetto né ne legittimano un recupero odierno.

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