lunedì 11 novembre 2019

Limbo

È chiaro, in tutta la sua non-chiarezza, marginalità e cripticità di come Limbo (2016) sia scosso nelle viscere da una faglia di origine religiosa che Konstantina Kotzamani sottolinea già con la didascalia iniziale, ma non è solo la possibile rappresentazione di una zona insondabile popolata da anime in bilico, la talentuosa regista ellenica impenna la propria visione verso altitudini escatologiche dove i concetti cardinali dell’umanità si metaforizzano in un impianto sì ermetico ma anche, attraverso procedimenti indicibili e ammalianti, diafano, cristallino, a suo modo rilucente, Limbo, infatti, pur costituendosi in toni violacei e slavati, è una scintilla di cinema d’alta fattura che luccica per il respiro universale che propaga: Dio, la Madonna, gli Apostoli, Gesù, Giona, in realtà non vi è nulla di quanto appena elencato sebbene, sempre in realtà (ma quella fruitiva, che vive nello spettatore), è lampante che vi sia esattamente ciò, e quindi ecco che la Kotzamani costruisce un bolla presepiale senza coordinate che ci chiama e ci respinge, che indica e che nasconde, e credo che al di là di ogni allegoria, sopportabile o meno, bisogna ammirare un’immagine “normale” come la prima che però potrebbe essere il senso dell’intero lavoro: un bambino sborda dallo schermo, ha il colore del cielo dal quale, piace credere, proviene.

E come viene proposto un flusso di argomentazioni così sotterranee, ampie ed inafferrabili? Con uno stile che sembra essersi sgrezzato dell’ubriacante anarchia di Pigs (2011) in favore di un’estesa sospensione, una piega placida venata dall’inquietudine, della madreperla vicina alla crepa. C’è, insomma, un’estetica perfettamente definita e rifinita (le riprese sono durate quattro mesi, tantissimo per trenta minuti di proiezione) che caratterizza un mondo a cui crediamo da subito e che grazie ad oculate scelte, tra tutte l’estromissione degli adulti (che però si intravedono durante la processione ardente), seduce lo sguardo offrendo un album fotografico purgatoriale, la traduzione dantesca di ciò che il Poeta posizionò oltre le Colonne d’Ercole. Valida, inoltre, la scelta di insignire delle vesti cristologiche un ragazzetto albino il cui nitore, una volta giunto al cospetto del nero cetaceo (che deve essere per forza un tributo a Le armonie di Werckmeister, 2000), crea una mini-deflagrazione, un contatto vita-morte tra due entità che il gruppo di bimbi-apostoli non riesce a categorizzare tra i vivi e i morti, e cosa ne consegue è un mistero che forse sconfina nel miracolo, in un prodigio soprannaturale dove una verità che resta è il cinema di Konstantina Kotzamani ed un finale come se ne vedono pochi.

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