In
effetti non c’è mai stato molto amore nei film di Andrej Petrovič Zvjagincev,
il regista russo si è sempre preoccupato di illustrarci l’assenza
di tale sentimento o al massimo le briciole residuali derivanti da
una qualche tragedia umana, e i modi con cui ha portato avanti questo
macro-tema non hanno mai difettato di tecnica, infatti la fattura
estetica delle sue opere ha prestato raramente il fianco a possibili
critiche, discorso diverso invece per alcune scelte di “penna”
spesso gravide di ostensioni, meccanicità e artificio
sceneggiaturiale oltre che di una marcata ripetitività argomentativa
(tre film su cinque hanno al centro una donna invischiata in faccende
tra loro molto simili), se ne parlava in Leviathan
(2014), bella confezione ma, come dire, poco, pochissimo cuore.
Adesso Nelyubov (2017),
che quindi già dal titolo ha una carica riassuntiva nei confronti
dell’intera filmografia, fa rimangiare in parte le parole che il
sottoscritto aveva pronunciato nel commento al film precedente.
Attenzione: in parte. L’impressione globale, quella più a caldo
visto che ho terminato la visione pochi minuti fa, è che finalmente
Zvjagincev sia riuscito a far conciliare le proprie ambizioni
intellettuali con il vestito formale della pellicola, o perlomeno
l’incontro tra le due istanze non genera stonature di ampia
portata, e sebbene qualche “stecca” sia presente (la tendenza di
sbattere in faccia allo spettatore non viene mai meno) è evidente
ormai che esibire rientra nel modus
operandi insito
nell’arte di Zvjagincev, chi lo guarda sa bene cosa dovrà
affrontare.
La
ragnatela relazionale di Loveless
intreccia la vita di quattro persone proponendole in una transizione
rivolta ad un futuro quanto meno enigmatico (i fatti si svolgono nel
2012, anno della presunta fine del mondo come ricorda la radio in
macchina), e sarà un’ovvietà sottolinearlo ma nessuno nei quadri
famigliari tratteggiati pare avere le risorse per affrancarsi dagli
errori commessi in passato, qui il regista è abile nel non calcare
troppo la mano sui disordini emotivi della coppia sgretolata, pochi
gli scontri tra i due ma d’effetto e soprattutto resi in modo
abbastanza naturale senza particolari forzature che invece affiorano,
forse, quando si spinge sulle contrapposte nuove vite con i
rispettivi partner, ma al contempo non è facile immaginare altre
modalità con cui trasmettere i postumi di una storia finita male ed
il correlato tentativo di ricominciarne un’altra. Tuttavia il punto
di forza in Loveless,
così definibile, a mio avviso, esattamente per la capacità di
sottrarsi all’occhio, di sparire, di trasformarsi in una sostanza
fantasmatica, la stessa che materializza i ciclopici sensi di colpa,
è la figura del figlioletto, protagonista visibile nell’invisibile,
ovvero: lui non c’è, eppure c’è, è dietro la porta nella scena
più riuscita di tutta l’opera. Non che il regista inventi chissà
quali stratagemmi per insufflare il dramma di una scomparsa, adopera
semplicemente quei canoni da thriller-dell’-anima dove la ricerca,
chiaramente infruttuosa, è un lento stillicidio in cui ciò che si
esplora non sono tanto i campi incolti o gli edifici abbandonati
quanto gli esseri umani. Onestamente non ho ravvisato grossi inciampi
nella detection che poggiandosi su tempistiche ben più blande
rispetto al genere di riferimento si dilata in un’atmosfera
dondolante, povera di accadimenti ma fitta (si esagera un po’,
suvvia) di tensioni, ed è molto efficace, in tal senso, la sequenza
all’interno dell’obitorio.
Le
coordinate del cinema zvjaginceviano pur essendo ampiamente definite
e riconosciute (ecco i tag: esistenza; umanità; dramma; Russia;
ecc.) ad oggi non sono ancora riuscite a venire incanalate in un
prodotto capace di soddisfare in pieno le potenzialità
individuabili, il comparto visivo a tratti svia, di fronte a cotanta
eleganza ci si aspettava un corpo maggiormente robusto rispetto a ciò
che poi si è invece palesato, Il ritorno
(2003) aveva un po’ illuso, la tripletta centrale costituita da The Banishment
(2007), Elena
(2011) e Leviathan
è andata calando (con un tonfo rumoroso nel 2014), ma Loveless
potrebbe
rappresentare un nuovo punto di partenza: sfrondare gli inutili
sfoggi (la madre che fa tapis roulant con la felpa della Russia è
una caduta di stile palese) e puntare sull’essenzialità (la
tragicità della scomparsa senza fronzoli, né prima, né dopo: ciò
che rimane è una foto segnaletica sbiadita dal tempo e un nastro che
sventola come una bandiera a lutto).
Anche a me ha lasciato un po' l'amaro in bocca, malgrado abbia apprezzato i ritmi della narrazione e il gelido finale. Ma mi è sembrato che spesso alcune scelte formali come le fastidiose carrellate su inquadrature fisse (anche di brevissima durata), fossero guidate più dalla "buona maniera" di fare cinema che dallo spirito di ricercare una poetica. Infatti il meglio lo da sulle inquadrature fisse come la scena dell'obitorio. Al di là di questo, l'immagine della Russia che ne esce non è neanche molto diversa da quella che potremo immaginare. E questo forse è un difetto?
RispondiEliminaRiguardo al finale, ammetto che l'inquadratura finale sull'albero e un nastro (con i colori della bandiera russa?) mi ha lasciato una bruttissima sensazione. Ma mi sfugge il significato. Non so se a te ti ha detto qualcosa.
Guarda, pur essendo un tipo di cinema che ormai non sento più molto mio, mi ha dato da pensare, mi ha toccato, non sconvolto, per carità, ma sfiorato sì. La faccenda base legata a questo regista è che è uno attentissimo alla forma ma meno alla scrittura, per cui quando l'abito si percepisce solo autoreferenziale ecco che emergono le storture da te avvertite. In un cinema prettamente narrativo non basta una buona estetica. Il finale penso sia un'eco tombale, il nastro essendo un oggetto appartenente al bambino è tutto ciò che è rimasto di lui insieme alle sbiadite foto segnaletiche. Questi due elementi usati per descrivere la scomparsa (probabilmente definitiva) devo dire che mi sono piaciuti molto.
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EliminaEcco. Io ho addirittura immaginato che il bambino fosse salito sull'albero e fosse finito nel lago. Allora la sensazione che mi ha suscitato non è poi cosi campata in aria. Sul nastro non ricordavo che appartenesse al bambino. Comunque si, rispetto a quello che il cinema narrativo ci propone... Ce ne fossero di film così.
RispondiEliminaQui puoi vedere la scena dell'incipit con il nastro: https://www.youtube.com/watch?v=S_ZNjm3jQsc
RispondiEliminaAllora ho preso un bel tonfo per non averla ricordata, è una scena chiave! Ciò dimostra che comunque il nastro era già lì sopra prima della morte del bambino. Ma come dici il finale potrebbe essere proprio una sorta di eco tombale, anche perché la mdp si muove esattamente come la soggettiva dell'incipit. A me non so perché era rimasta impressa la bandiera che sventolava sopra il sinistro edificio scolastico.
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