venerdì 15 dicembre 2017

I Belong

Il norvegese Dag Johan Haugerud, regista ma anche romanziere, con Som du ser meg (2012) segue un trend categoriale che nel nord Europa, diciamo dall’Austria in su, ha visto nel corso degli ultimi anni un proliferare di esemplari equipollenti (e per quanto ammirato buona parte di essi ampiamente sopra la soglia dell’accettabilità), mi riferisco alla formula del film corale che ha avuto un numero cospicuo di interpreti, ognuno con una propria cifra divergente e al contempo con un forte substrato accomunante, giusto per fare alcuni nomi: Michael H., Ulrich S., Roy A., Ruben Ö., Veiko Õ. (e Nothing’s All Bad [2010], uno dei prodotti migliori in questo campo), esempi di proposte autoriali oscillanti fra tinte più cupe ed altre più lievi con obiettivi ben precisi: denudare l’uomo medio, minare le sue sicurezze sociali, estirpare i fragili legami sentimentali. Ecco, I Belong entra di diritto in tale cerchia usufruendo di una struttura ovviamente obsoleta (anche la faccenda del racconto interno e della scrittrice che sfiora le proprie creature in giro per la città mi è parsa una trovata sterile, al massimo ludica sebbene non venga nemmeno data la possibilità di godere... del gioco) alla quale si coniugano modi e tempi comunque apprezzabili per questo tipo di cinema, e quel tenore basso, quelle emozioni sempre sottotraccia sono ben impersonificate dagli attori in scena, per cui congratulazioni al casting che, almeno nelle prime due parti, ha trovato delle interpreti davvero convincenti.

Una delle questioni principali che pesano sull’esito di un film corale è la capacità del regista di turno nel riuscire a trovare un equilibrio fra i differenti segmenti presentati. Banalmente: spesso alcuni sono più interessanti/coinvolgenti di altri, e quando ciò accade la disomogeneità che emerge funge da discriminante in termini negativi. Ahinoi in I Belong si verifica quanto appena detto, perché se osserviamo il primo ed il secondo episodio, tra l’altro piuttosto simili poiché abbiamo due donne che devono affrontare un piccolo ma significativo cambiamento della routine lavorativa, quello che deve arrivare arriva: Il Disagio è il sentimento che le fragili protagoniste devono fronteggiare (fallendo, ça va sans dire), e le situazioni che Haugerud imbastisce sono dei meccanismi all’arsenico che propagano piccole dosi di acidità non trascurabili, frangenti in cui si percepisce la possibilità di una traslazione che potrebbe riguardarci da vicino anche al di fuori della diegesi, circostanze un filo rattristanti che sfogliano quel libro dagli infiniti capitoli che si chiama “uomo”. Peccato che il regista chiuda con una vicenda oltremodo sottotono rispetto alle precedenti, alla presenza di fattori con potenziale come legami consanguinei (ma non troppo saldi) e una grossa eredità che balla risponde una rappresentazione scialba incentrata sulla verbosità degli astanti che si risolve con la cocciutaggine dell’anziana madre.

I Belong non è un oggetto filmico per cui vale la pena prendersi una cotta, rientra però in un contesto che mi invento qui ed ora definibile come “d’intrattenimento” (che non è affatto quello che comunemente si intende con il suddetto termine) costituito da quel cinema narrativo che coniuga professionalità e una buona tematizzazione, niente che sconvolge, né avvolge, solo la possibilità di assistere ad una proiezione cinematografica.

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