Il norvegese Dag
Johan Haugerud, regista ma anche romanziere, con Som
du ser meg (2012) segue un
trend categoriale che nel nord Europa, diciamo dall’Austria in su,
ha visto nel corso degli ultimi anni un proliferare di esemplari
equipollenti (e per quanto ammirato buona parte di essi ampiamente sopra
la soglia dell’accettabilità), mi riferisco alla formula del film
corale che ha avuto un numero cospicuo di interpreti, ognuno con una
propria cifra divergente e al contempo con un forte substrato
accomunante, giusto per fare alcuni nomi: Michael H., Ulrich S., Roy
A., Ruben Ö., Veiko Õ. (e Nothing’s All Bad
[2010], uno dei prodotti migliori in questo campo), esempi di
proposte autoriali oscillanti fra tinte più cupe ed altre più lievi
con obiettivi ben precisi: denudare l’uomo medio, minare le sue
sicurezze sociali, estirpare i fragili legami sentimentali. Ecco, I
Belong entra di diritto in
tale cerchia usufruendo di una struttura ovviamente obsoleta (anche
la faccenda del racconto interno e della scrittrice che sfiora le
proprie creature in giro per la città mi è parsa una trovata
sterile, al massimo ludica sebbene non venga nemmeno data la
possibilità di godere... del gioco) alla quale si coniugano modi
e tempi comunque apprezzabili per questo tipo di cinema, e quel
tenore basso, quelle emozioni sempre sottotraccia sono ben
impersonificate dagli attori in scena, per cui congratulazioni al
casting che, almeno nelle prime due parti, ha trovato delle
interpreti davvero convincenti.
Una
delle questioni principali che pesano sull’esito di un film corale
è la capacità del regista di turno nel riuscire a trovare un
equilibrio fra i differenti segmenti presentati. Banalmente: spesso
alcuni sono più interessanti/coinvolgenti di altri, e quando ciò
accade la disomogeneità che emerge funge da discriminante in termini
negativi. Ahinoi in I Belong
si verifica quanto appena detto, perché se osserviamo il primo ed il
secondo episodio, tra l’altro piuttosto simili poiché abbiamo due
donne che devono affrontare un piccolo ma significativo cambiamento
della routine lavorativa, quello che deve arrivare arriva: Il Disagio
è il sentimento che le fragili protagoniste devono fronteggiare
(fallendo, ça va sans dire),
e le situazioni che Haugerud imbastisce sono dei meccanismi
all’arsenico che propagano piccole dosi di acidità non
trascurabili, frangenti in cui si percepisce la possibilità di una
traslazione che potrebbe riguardarci
da vicino anche al di fuori della diegesi, circostanze un filo rattristanti che sfogliano quel libro
dagli infiniti capitoli che si chiama “uomo”. Peccato che il
regista chiuda con una vicenda oltremodo sottotono rispetto alle
precedenti, alla presenza di fattori con potenziale come legami
consanguinei (ma non troppo saldi) e una grossa eredità che balla
risponde una rappresentazione scialba incentrata sulla verbosità
degli astanti che si risolve con la cocciutaggine dell’anziana
madre.
I Belong
non è un oggetto filmico per cui vale la pena prendersi una cotta,
rientra però in un contesto che mi invento qui ed ora definibile
come “d’intrattenimento” (che non è affatto quello che
comunemente si intende con il suddetto termine) costituito da quel
cinema narrativo che coniuga professionalità e una buona
tematizzazione, niente che sconvolge, né avvolge, solo la
possibilità di assistere ad una proiezione cinematografica.
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