lunedì 18 dicembre 2017

Caniba

Non vorrei forzare troppo il collegamento con Leviathan (2012), un vertice assoluto degli ultimi anni e manifesto cinematografico da magnificare, ma l’impressione è che ci sia un link non sottovalutabile in Caniba (2017), nella veduta del duo Lucien Castaing-Taylor-Véréna Paravel gli scorci aperti sono squarci per ambo le opere, scontato parlare di abissi, inevitabile ricorrere al nume tutelare Philippe Grandieux, impressionanti i risultati ottenuti in particolare nello sconfinato campo della suggestione. Il lavoro del 2012 ha in tal senso una carica investente di gran lunga superiore poiché per una propria forza interna che richiama l’originarietà della Vita (e di riflesso della Morte) l’impatto ha portato ad una deflagrazione esperienziale sconcertante, anche Caniba sa però difendersi bene e pur essendo un oggetto antitetico a Leviathan, almeno nel set di ripresa, permette l’osservazione di un ennesimo spaventoso Grand Canyon, questa volta umano, una testimonianza di erosione della coscienza: Issei Sagawa, l’antropofago assassino, è un piccolo buco nero che col desiderio di fagocitare gli altri è finito nel limbo di un universo anonimo, solo, malridotto, aiutato da un fratello a sua volta deviato da pratiche di autolesionismo. Come rammenta la scritta esplicativa in apertura LCT e VP non hanno intenzione di giustificare o legittimare il crimine commesso da Sagawa e al contempo, aggiungo io, non sono nemmeno interessati ad operare una sorta di riabilitazione dell’uomo ormai ridotto in una condizione semi-larvale in preda ai suoi vaneggiamenti, piuttosto il fine di Caniba è quello di utilizzare un truce e sotterraneo evento storico ruotante attorno ad uno squilibrato per misurare la temperatura artistica a cui si può arrivare.

E, neanche a dirlo, la gradatura termica è notevolissima in ragione di un approccio visivo che divelge il contenitore documentaristico (sarebbe, in teoria, un modello molto semplice: close-up sul volto di Sagawa e monologo dello stesso) per diramarsi in direzioni ben più profonde, praticamente insondabili, in un moto prospettico identico a Leviathan. Il digitale è ora per gli autori una tavolozza da cui eliminare tutti i colori tranne uno: il rosa, nell’impianto estetico il rosa, pallido ed emaciato, riempie lo schermo, e, per chi scrive, non c’era soluzione migliore: in un film che tratta il cannibalismo, la pelle, la carne, non può che occupare uno spazio di rilievo se non, come effettivamente è, l’intero spazio a disposizione. Il viso di Sagawa, contornato da una perenne sfocatura che a volte lo invade spersonalizzandolo più di quanto sia già sperso di e da sé, è una tela aliena distesa davanti ai nostri occhi impegnati a registrare, anche involontariamente, un ammontare epidermico, confuso e pixelloso, che evoca il tema portante dell’opera. In un ambiente dove ogni cosa sembra sfumare, perfino l’orrore del maniaco sostituito da un povero vecchietto indifeso, gli spilli di una realtà concreta (perché, come dire, quella che vediamo non sembra nemmeno tale, e qui si rimanda alla lucida dissertazione di Alessandro Baratti, link) si incuneano nella nostra di pelle: il porno di Issei, le tremenda gesta disegnate in un manga, le turbe di Jun, ma anche i ricordi del passato così stridenti (l’apprezzamento verso la Disney) al pari dei gaudiosi filmini casalinghi. Nella nebbia, nel mondo opaco di Sagawa l’esplorazione del Male è, come la nozionistica insegna, una questione fin banale, ma penetrarvi, sentirla scorrere dentro e venirne avvolti, beh, è un esame spettatoriale altamente formativo.

6 commenti:

  1. Dovrei rivederlo. Ma Baratti (per nostra fortuna tutt’altro che lucido) scrive una cosa fondamentale che cancella la categoria di male, che tu ancora utilizzi. Utilizza il concetto del Reale (bontà sua in minuscolo) e stop, la recensione finisce lì. Ha colto nel segno. Non c’è altro da aggiungere. Il reale ovviamente non ha nulla che vedere con il cannibalismo, con ciò che fece Issei, ma con ciò che ci mostrano i registi. Mi ha esaltato, forse commosso, certo colpito lo sguardo di Sagawa. C’è un libretto abbastanza schifoso, non aggiunge poi molto a wikipedia, in italiano su Sagawa, se ti interessa ho il pdf e te lo invio. Se ritrovo tua mail, te lo invio. Stai bene, ciao, jean claude.

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  2. Baratti coglie sempre nel segno. D'altronde cosa si può dire di fronte al parallelo delle formine e della sabbia? Spiegami un po' meglio per favore questo concetto del reale proposto dai registi in antitesi con i fatti storici realmente (!) accaduti commessi da Issei, mi interessa molto la suddetta diade perché credo sia un aspetto importante per come e cosa voglio vedere nel cinema. La mia mail ce l'hai di sicuro.

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  3. Mi chiedi di scriverti giusto due righe eh! Effettivamente sembra buttata lì, ma in realtà ho preso spunto dalla parte (per me) più interessante della recensione di Alessandro. Comunque, mi farà piacere parlarne con te. Parlarne con te, appunto, perché quel minimo di barcollante sobrietà che mi resta non mi permette di delirar su Lacan pubblicamente. Quindi, ti scrivo mail. Comunque, hai perfettamente ragione: "credo sia un aspetto importante per come e cosa voglio vedere nel cinema".

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  4. Ti ho inviato la mail. Scusami se mi sono un po' dilungato. Saluti, jean claude.

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  5. Reale gratitudine per la fiducia immeritatamente accordatami. Ho tutto il tempo per trasformarla in una più fondata e giustificata diffidenza. Grazie ancora a entrambi.
    Alessandro

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  6. Assolutamente no. La fiducia è a tempo indeterminato. Un saluto e grazie a te.

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