Lo scenario è risaputo: siamo nella Germania dei tempi bui, dentro le case ebree la paura convive insieme alla rassegnazione, praticamente si attende solo il terribile momento della deportazione: ma come spiegare tutto questo ad un bambino?
Jochen Alexander Freydank, regista e produttore molto più vicino al piccolo schermo che a quello grande, contrappone in Spielzeugland (2007) due famiglie pressoché identiche accomunate, per quel che possiamo vedere, dalla passione per la musica che riversano sui propri figlioletti, ma divise dalla “razza” di appartenenza, per cui una ha il destino segnato mentre l’altra (priva di una componente maschile) non può che assistere inerte al compiersi di un assurdo volere. Il pepe è messo dal piccolo Heinrich la cui madre, ovviamente impossibilitata a spiegargli la realtà dei fatti, ha inventato per lui una storiella che vede il confino semitico come una gita in un mondo di giochi.
Di tutto questo Freydank è ordinato espositore ed anche qualcosa di più: invece di narrare cronachisticamente scompagina la temporalità del corto alter(n)ando la sequenzialità degli eventi; ad un livello dove la mamma cerca il proprio figlio smarrito, si intervallano flash esplicativi di un passato recente, tale costruzione rappresenta il celeberrimo “niente di che” ma ravviva, dà un’andatura che una volta assimilata prende fino ad una scena madre non priva di debolezze (possibile che gli inflessibili poliziotti accettino ciò che accade senza alcuna documentazione?), ma tutto sommato ben oliata e capace di appiccare una vampata benignesca (il riferimento è esclusivamente a La vita è bella, 1997) nel cuore dello spettatore. Tenendo conto poi del finale che si riaggancia all’inizio, non stupisce troppo l’incoronamento da parte degli americani che hanno premiato Freydank con l’Oscar, niente di clamorosamente immeritato, tuttavia il cinefilo scafato farà più fatica a lasciarsi andare in spropositati encomi.
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