La malattia a cui allude
il titolo altresì nominata tripanosomiasi africana umana
(malattia del sonno) è una magagna sanitaria così grave da essere
considerata alla stregua dell’AIDS e della malaria.
A pensare però che il
film di Ulrich Köhler (è il marito di Maren Ade, autrice di
Everyone Else [2009], qui produttrice) sia uno scontato
resoconto sulle missioni umanitarie in Africa si cade in errore
perché al regista tedesco non interessa affatto illustrare le
contromisure della scienza progredita contro le malefatte della mosca
tse-tse, ciò che più gli preme è scandagliare la tessitura dei
rapporti sentimentali concentrandosi nella prima mezz’ora sul
dottor Ebbo Velten la cui relazione con la moglie, a giudicare da una
vecchia lettera riletta alla figlia, è sempre stata segnata dalla
lontananza. E se è vero che come diceva Fossati che la distanza è
atlantica (in questo caso… mediterranea), al camice di dottore
Ebbo opta per i vestiti civili (perfino africani!), e invece di
interessarsi al progetto medico preferisce impelagarsi in affari che
non lo porteranno da nessuna parte. Ma soprattutto, di fronte al
dilemma del bivio, sceglie di stare lì, sceglie una donna (la
cameriera), sceglie l’Africa.
Köhler non si ferma
all’esposizione di queste schermaglie amorose, con l’introduzione
dell’altro dottore, Alex Nzila, il nocciolo della pellicola sale a
galla e così diventa lampante che il vero legame su cui bisogna
concentrarsi non è quello tra le persone, bensì tra le singole
persone e il continente nero. Attraverso una discreta valorizzazione
della geografia (i tragitti lungo le strade dissestate) Köhler è
bravo a portare in primo piano i differenti nessi tra l’Africa e i
due dottori. Anche con un pizzico di
ironia vengono rovesciati dei preconcetti diffusi, e quindi se Ebbo,
uomo caucasico in tutto e per tutto è ormai completamente assorbito
dalla realtà del luogo, Nzila, a prescindere dal colore della sua
pelle, è uomo europeo (francese da una generazione come ripeterà)
che fatica a penetrare nel vissuto camerunense (dal prezzo delle
sigarette alla pipì fatta nella bottiglia per paura di uscire). Il
film crea questo dialogo proficuo mantenendo comunque le distanze
dalla sfera personale dei protagonisti, non c’è invadenza nel
raccontare le loro vicissitudini, resta solo un po’ di compassione,
di solito rivolta a bimbi con la pancia gonfia e gli occhi flagellati
dagli insetti, mentre qui diretta a due scienziati, due occidentali,
due bianchi: anche se uno non lo è.
Attraente il finale:
immersione nella giungla, buio scalfito dai raggi delle torce, mdp
che sfrigola ad ogni minimo movimento tra le frasche. A parte un
piccolo appunto (come è possibile che Nzila riesca ad addormentarsi
nel cuore della notte in una foresta equatoriale?), dalle ultime
battute si svela quella parte dell’Africa che ancora non era stata
toccata, quella fatta di feticci e di credenze, e dal nulla un
ippopotamo che quatto quatto si inabissa sotto il pelo dell’acqua.
tema già trattato questo,ma leggendoti parrebbe,in questo caso,in maniera meritevole di visione..grazie come sempre..ciao
RispondiEliminaIo lo consiglio, ci ho visto dell'impegno dietro. Grazie a te caro brazzz.
RispondiEliminadevo recuperare.e non solo questo.
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