Mediometraggio giapponese del 1967 girato da Kôji Wakamatsu e proposto da Ghezzi (chi altri se no?) nel suo Fuori orario. Ispirato ad una vicenda realmente accaduta, l’assassinio di alcune infermiere da parte di Richard Speck a Chicago, il film è interamente girato in bianco e nero escluse alcune scene, e sottolineo questo alcune.
All’interno di un dormitorio di infermiere due di esse si abbandonano all’amore saffico. Le loro colleghe le spiano divertite dal buco della serratura quando si accorgono che un uomo è entrato nel loro giardino. Invece di respingerlo lo invitano a guardare la scenetta erotica. Sarà la loro condanna a morte perché l’uomo le ucciderà tutte tranne una.
L’incipit rivela subito allo spettatore la natura psicotica del protagonista con un montaggio frenetico che alterna immagini di nudi femminili al volto dell’uomo palesemente sofferente e/o arrabbiato.
In realtà non c’è niente di certo, non sappiamo di cosa l’assassino soffra realmente, e nemmeno perché egli uccida, lui stesso afferma che non lo sa. È però evidente una certa paura, o forse odio, nei confronti delle donne che si manifesta sottoforma di allucinazioni visive e non, scatenando una violenza insensata e incomprensibile, pari, per mancanza di ragioni valide e non per metodologie, a quella di Haneke in Funny Games (1997).
L’ambiente è opprimente, claustrofobico. La trama semplice e lineare. Eppure il film è denso di significati spaziando dalla follia all’amore, che poi è forse la stessa cosa, senza risparmiare pugni nello stomaco come le immagine a colori che rompono la “monotonia” del bianco e nero amplificando la violenza agli occhi dello spettatore, e ricordo che è un film del 1967.
All’interno di un dormitorio di infermiere due di esse si abbandonano all’amore saffico. Le loro colleghe le spiano divertite dal buco della serratura quando si accorgono che un uomo è entrato nel loro giardino. Invece di respingerlo lo invitano a guardare la scenetta erotica. Sarà la loro condanna a morte perché l’uomo le ucciderà tutte tranne una.
L’incipit rivela subito allo spettatore la natura psicotica del protagonista con un montaggio frenetico che alterna immagini di nudi femminili al volto dell’uomo palesemente sofferente e/o arrabbiato.
In realtà non c’è niente di certo, non sappiamo di cosa l’assassino soffra realmente, e nemmeno perché egli uccida, lui stesso afferma che non lo sa. È però evidente una certa paura, o forse odio, nei confronti delle donne che si manifesta sottoforma di allucinazioni visive e non, scatenando una violenza insensata e incomprensibile, pari, per mancanza di ragioni valide e non per metodologie, a quella di Haneke in Funny Games (1997).
L’ambiente è opprimente, claustrofobico. La trama semplice e lineare. Eppure il film è denso di significati spaziando dalla follia all’amore, che poi è forse la stessa cosa, senza risparmiare pugni nello stomaco come le immagine a colori che rompono la “monotonia” del bianco e nero amplificando la violenza agli occhi dello spettatore, e ricordo che è un film del 1967.
Nessun commento:
Posta un commento