sabato 15 gennaio 2022

Lek and the Dogs

Uno scoglio contro cui è inevitabile sbattere quando si posano per la prima volta gli occhi su un nuovo autore è l’impossibilità di conoscere il trascorso artistico dell’autore in esame, pertanto l’impressione che si darà dell’opera visionata sarà monca dei possibili rimandi ai titoli precedenti (che, a detta di un articolo del The Guardian, pare ci siano). La premessa, sono d’accordo, è di una ovvietà imbarazzante, però mai come per Lek and the Dogs (2017) risulta necessaria perché la mano che gli sta dietro è quella di Andrew Kötting, un regista britannico che, almeno a quanto si legge sul suo conto, è uno lontanissimo dai circuiti commerciali al punto da essere definito da alcuni siti del settore come uno che fa cinema d’avanguardia, al momento chi scrive non ha molti elementi per constatare ciò, di certo LatD è un oggetto molto, molto particolare che all’interno contiene svariati mondi, tutti vicini all’incomprensibilità, l’unica certezza della vicenda è la fonte ispiratrice proveniente dalla realtà che ha un nome e un cognome: Ivan Mishukov, un ragazzo nato nel 1992 in Russia che a quattro anni scappò da una famiglia violenta per essere “adottato” da un branco di cani randagi nei pressi di Mosca con i quali visse per due anni [1]. La sua storia è stata ripresa da diversi scrittori in giro per il globo, la versione di Hattie Naylor (Ivan and the Dogs, 2010) è esattamente il testo da cui è partito Kötting.  

Quindi, al posto di Ivan c’è Lek (interpretato da un attore che si chiama Xavier Tchili), e al posto di una ricostruzione degli eventi c’è ben altro: diciamo che la pista (a grandi, ma davvero grandi) linee narrative si sostanzia in un monologo interiore, in un flusso di ricordi che il protagonista registra su una cassetta, il fatto è che tale pista si biforca, prende altre strade, vicoli ciechi, burroni, guada dei fiumi, ritorna alla partenza, svanisce nel nulla e di conseguenza non è facile starle dietro. La sensazione che il film sia più respingente che attraente si deve ad una modellazione di registri divergenti che in teoria potrebbero generare una leggera confusione, si rimbalza da un set desertico (è una zona del Cile), che rappresenta una specie di presente distopico dove Lek vive sotto terra, al collage di stralci d’archivio piuttosto disparati (ma comunque efficaci nel ricreare un processo mnemonico). Il mix che ne esce fuori, non lo si nasconde, è ostico, tuttavia, se si è abbastanza coraggiosi nell’arrivare fino in fondo, non si può negare che ci sia un grado di fascinazione medio-alto dovuto ad una qualità delle immagini non così comune nel cinema odierno (i cuccioli di cane appena nati; la navigazione nella grotta sotterranea; i bui primi piani di Lek) che suggeriscono una cura formale elogiabile (anche solo il font dei sottotitoli per le parti in russo è un dettaglio da apprezzare).

La componente personale del film che lo attraversa più o meno interamente fa sì che Lek and the Dogs assuma i tratti di una seduta psicologica. L’interpretazione è a dir poco ardita e me ne assumo le responsabilità, la questione è che l’autobiografia esposta, sofferta, rancorosa, malinconica, divagante e inintelligibile ha un nonsoche di terapeutico, c’è un grosso blob nero da espellere per Lek e il parlarne nel registratore sembra quasi un esorcismo (si esagera solo con i pianti e le urla enfatizzanti), a riprova di questa ipotesi ci sono degli ingressi in lingua inglese da parte di una voce femminile che trattano argomenti non propriamente legati alla narrazione sullo schermo e che possono rientrare nel macro insieme della psicologia. Ad ogni modo, sia quel che sia, io finché avrò sufficiente fame scopica non volterò mai le spalle a proposte ostinatamente disallineate all’ordinarietà, e se sarò in possesso dei tre ingredienti base per un approfondimento (tempo + voglia + disponibilità dei prodotti) penso che avrò ancora a che fare con Andrew Kötting.    
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[1] Può apparire assurdo che nella nostra epoca vi siano situazioni del genere, ma la Russia in passato non è stata in grado di arginare il dramma dei bambini vagabondi. Ne parlai per il commento di House with a Turret (2012) dove mi viene nuovamente naturale consigliare il libro di Luciano Mecacci Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) edito da Adelphi nel 2019.

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