Documentario di contemplazione ma non solo. Muñoz ed Herce instillano elementi che non mi sentirei di bollare come finzionali e che al contempo non possono rientrare nel registro del reale. La prima goccia che cade sul girato e che ritorna con discreta regolarità durante la proiezione riguarda l’innesto di un filo narrativo raccontato da una voce esterna che si annoda nel tempo, che si perde nella bruma del passato (ad un certo punto compaiono in serie delle affascinanti fotografie in bianco e nero) e che implementa una percepibile filigrana magica, poi ci sono degli accenni che si concentrano principalmente su un ragazzo figlio di un pescatore, la sua presenza sullo schermo segna il punto di massima incrinatura dell’apparato documentaristico perché è il protagonista di un’amicizia (o forse di qualcosa che lui vorrebbe andasse oltre) con una ragazza, l’unica donna in un mondo esclusivamente maschile, e tali maschi si manifestano in video nel loro guscio impenetrabile (perché uno riempie una carriola di sabbia per svuotarla poco più in là?) foriero di un mistero che è bene non venga inquinato così come l’essenza enigmatica che costituisce l’opera. Al di là della traccia ascetica si hanno dunque dei segnali da cogliere che per chi scrive non possono che essere arricchenti, e lo sono non tanto per arrivare ad una comprensione totalizzante quanto per ingemmare i recettori del sentire, per bersagliare di input l’ovulo della suggestione, il tutto accettando il compromesso di confrontarsi nel recinto meditativo in cui El mar nos mira de lejos è auto-asserragliato, chi non starà a queste condizioni non durerà nemmeno dieci minuti.
Felicità
2 ore fa
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