lunedì 10 gennaio 2022

Habitat: Note personali

Ci vuole poco a capire la cifra intima del progetto Habitat: Note personali (2014), è già il titolo ad indirizzare la natura del film verso una paternità, che è quella di Emiliano Dante, voce autorevolissima in materia in quanto lui, esattamente come tutti gli altri suoi concittadini, il 6 aprile 2009 alle 3:32 ha visto il tetto di casa crollargli sulla testa. Cinque anni dopo il terremoto dell’Aquila Dante dà luce ad un lavoro che mescola approcci differenti all’interno del sistema documentario, vista l’essenza ombelicale dell’opera c’è molto di videodiario qui, un auto-riprendersi che è testimonianza di esserci, ancora, in qualche modo, seppur dentro ad una casa che fa parte di C.A.S.E. il cui acronimo non restituisce l’accoglienza del focolaio. Ma questo esserci è violato dal regista stesso per mezzo di dissolvenze antropomorfe e trasformazioni animate bidimensionali perché c’è qualcosa di triste nell’aria (ce lo dice Dante che il colore non gli garba, sarebbe una mossa che potrebbe suggerire allo spettatore un clima fuorviante), perché per coloro che hanno vissuto la tragedia ci sarà sempre un prima e un dopo che li ha stravolti, fino quasi ad annullarli. E oltre a tale accorgimento, Dante è attento a ornare le immagini in video con scritte, didascalie e numerazioni (il film è a conti fatti un lungo countdown) che ravvivano il flusso visivo, lo scuotono dall’atmosfera lugubre e industriale in cui è avvolto in una maniera che diventa perfino giocosa (la gru demolitrice che diventa un Godzilla affamato di calcinacci: ottima trovata!). Emiliano si è impegnato parecchio in post-produzione e la cosa inaspettata è che la suddetta fase di rifinitura viene a tratti mostrata durante il dispiegarsi dei minuti, fornendo quindi ad Habitat anche un piccolo risvolto metafilmico.

Il parallelo che si profila per Dante è incentrato tra la città e le persone che l’hanno abitata, la connessione designata tra le due entità vede per entrambe un concetto di ricostruzione che è sì attuabile e che, negli anni successivi al sisma si è parzialmente messa in moto, ma che comunque deve fronteggiare difficoltà non da poco, che possono essere la collusa burocrazia italiana al pari di un’idea di futuro divergente tra i componenti di una coppia. In pratica il regista assembla pezzi di vite di ragazzi a lui coetanei che conobbe un lustro prima nelle tendopoli allestite per gli sfollati, sono storie di uomini e di donne alle prese con le proprie macerie, con una riedificazione psicologica e professionale (non c’è stabilità emotiva senza stabilità economica) tutta in salita, con ciò che se ne è andato (Noemi, un nome, una dedica), che è rimasto (un legame, tra alti e bassi), che è arrivato (una figlia). Accompagnato da un commento dell’autore per nulla banale, ragionato sì, ma anche di pancia, malinconico, cupo, incazzato, speranzoso, in una parola: vivo, il film è una nicchia di resistenze scampate ad un collasso impossibile da comprendere appieno per noi esterni di cui porteranno per sempre delle scorie, è un puzzle di potenziali ricominciamenti che devono mettere in conto il verificarsi di una serie di assenze, anche e soprattutto materiali, a partire da una casa, la propria e non un surrogato, oltre al denaro e alla culla che per tanto tempo è stata la loro vita: L’Aquila, ed è anche un contenitore di riflessioni trasversali generato da un artista che cerca di metabolizzare la catastrofe filtrandola tra le maglie del cinema, e credo che alla fine, con sincerità, sensibilità e un pizzico di inventiva ci sia riuscito.

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