sabato 8 gennaio 2022

Fajr

Ma che spettacolo questo Fajr (2016), tutto forma, tutta estetica, il corto, girato nel deserto marocchino, è il proseguimento dello studio applicato al cinema di Lois Patiño già intercettato nei notevoli Montaña en sombra (2012) e Costa da Morte (2013). Sempre al confine con la videoarte, il filmmaker nato a Vigo esplora la malleabilità della materia filmata, qui le dune di sabbia e il cielo che si immaginerebbero rispettivamente gialle e azzurro piombano in un paesaggio di ombre, di fuliggine, di argento ossidato, usciamo dalla zona desertica per atterrare su un suolo lunare inondato dall’eco del vento. Il regista, grazie ai suoi interventi, delinea l’atmosfera giusta, il clima suggestionante giusto, è una visione che trasporta in un altrove, in una dimensione che sa essere al contempo arcaica e aliena, fantasmatica, anche, perché Patiño piazza delle tetre figure in abito lungo che da immobili sentinelle sorvegliano lo sconfinato territorio circostante, e quando pare che l’impasto delle immagini sia sufficiente a raggiungere il target dell’eccellenza, da laggiù si leva un canto (“fajir” in arabo significa sia alba che, sintetizzando di molto, preghiera), una voce gorgheggiante, una linea vocale ondulante e avvolgente, e non solo: le silhouette, ad un certo punto, perdono di consistenza, si sfocano, diventano macchie nere allungate, scompaiono nel nulla. 

Luna, valle, rugiada, morte. [1]

Sono felice, oggi, di poter essere testimone della molteplicità di approcci che caratterizza la settima arte, alcuni autori riescono ad arrivare a profondità inaudite senza operare più di tanto sul loro oggetto, altri, come Patiño, lavorano la pietra grezza attuando un processo trasformativo che ribalta la percezione di chi guarda. È una strada lecita e, nel caso dello spagnolo, anche fruttuosa, e lo affermo pur ritenendomi il fan numero uno del less is more, però al cospetto di soluzioni visive così intriganti non posso fare lo snob. Del resto cosa c’è di più bello provenire da un film se non venirne sorpresi, soprattutto dal suo darsi a noi attraverso registri incatalogabili e proponendo strutture che di colpo si rompono per ricostruirsi nel frame successivo come se niente fosse successo, e Fajr è, appunto, uno spazio indipendente dove nel momento di massimo splendore riesce ad aprirsi fino a mutarsi, con una sovrimpressione il deserto viene invaso dalle onde del mare, e quindi ecco il mare: la battigia, la risacca, ancora una sagoma, ’sta volta bianca, ancora una disgregazione. Ancora meraviglia.   
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[1] Guerra e guerra, László Krasznahorkai; Bompiani, 2020 

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