Come per il
collega e connazionale Kornél Mundruczó, in tempi recenti pure György Pálfi ha fatto il salto continentale girando il suo primo
film in lingua inglese, certo, anche ad un occhio poco avvezzo a
notare le sottigliezze la differenza che c’è tra Pieces of a Woman (2020) e His
Master’s Voice (2018) è
notevole ed è costituita dai soldi che Netflix ha messo a
disposizione per KM rispetto a quelli racimolati da GP, però il buon
Pálfi ha cercato di far necessità virtù e alla fine l’opera che
ha partorito, nella traiettoria sbilenca percorsa, nella
pseudo-artigianalità che la modella, nell’invasione di spazi
disallineati dalla traccia principale, ha a mio avviso una dignità
che si rafforza nel non prendersi troppo sul serio, in una autoironia
che medica le slabbrature, le velleità, i timidi tentavi, dopotutto
l’ho trovato un titolo divertente, perlomeno molto di più della
fatica precedente Free Fall
(2014). Ok, il diletto derivante da una proiezione non è un metro di
giudizio consono, diciamo allora che parliamo di un oggetto...
vivace, un po’ come le sgargianti camicie indossate dal
protagonista, e questa vivacità è sfaccettata in approcci e
tecniche diverse che confermano lo spirito d’inventiva che
caratterizza l’ungherese fin dagli albori (chi si ricorda Hukkle
[2002]?). Abbiamo un cospicuo uso di computer grafica (vedere le
iper-regressioni nel prologo e nell’epilogo), una trasversalità di
generi (dramma famigliare, fantascienza, mockumentary) e aperture su
una surrealtà abbastanza spinta (l’apparizione del gigante mi è
parso un tributo al dipinto di Francisco Goya Saturno che
divora i suoi figli), insomma
l’aria che spira è frizzantina, e dato che al film, in fondo, con
sfrontatezza non importa di finire per mostrarsi goffo e
pasticciato, il mio sentimento di benevolenza si è alzato di una
tacca. Giusto per fare un parallelo non richiesto, alcuni esemplari
della filmografia di Gabriel Abrantes si avvicinano a Az Úr
hangja, sebbene il portoghese
stazioni ad un livello consapevolmente al di là del concetto di
postmoderno.
La trama elaborata dal magiaro, che si basa su un libro di Stanislaw
Lem (ma a leggere in giro pare non gli sia stato particolarmente
fedele), mette o vorrebbe farlo (la discriminante del gradimento si
situa qui), in connessione il macroscopico con il microscopico, credo
che le due sequenze che fanno da contenitore alla pellicola siano in
tal senso significative, è tutta una faccenda di atomi e molecole,
di legami consanguinei che vanno a creare corpi, entità, organismi
all’interno di un involucro più grande che a sua volta sta dentro
ad un altro ancora maggiore e così via fino all’infinito. Sicché
la vicenda di una famiglia che indubbiamente è per i suoi componenti
il centro di una vita intera, diventa in realtà soltanto un piccolo
filo dell’immenso ordito dell’universo, e infatti durante il
finale la comparsa sullo schermo di un epocale albero genealogico è
lì a ricordarlo, siamo solo granelli di sabbia in un deserto
sconfinato o al massimo i simboli numerici di un codice binario
proveniente dalle stelle che un ragazzo diversamente abile è
impegnato a decrittare. Ecco, questa chiamiamola tensione tra
l’essere umano e le sue pene in rapporto ad una struttura
misteriosa che lo sovrasta è il nocciolo del film, poi a fare da
contorno Pálfi inserisce parecchia altra roba che sovraccarica la
visione. Le sensazioni di una progressione sbrindellata e di una
mancanza di equilibrio possiamo zittirle a patto di allinearci al
mood strampalato che aleggia, solo così si potranno digerire le
innumerevoli fuoriuscite dal seminato (le parentesi spaziali: si
accettano interpretazioni) al pari delle ingenuità che, ad una lettura
razionale, indeboliscono alcuni passaggi narrativi (la “vendetta”
di Zsolt). Poi un frullato composto da messaggi extraterrestri, un
alter ego da b-movie di Michael Moore, combustioni spontanee e orge
immotivate io lo ingollo senza grossi patemi. Menzione speciale alla
scena sul motoscafo.
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