Nella casa in campagna Sergio riceve dai suoi genitori la notizia che tra non molto potrebbe avere un fratellino.
Primo e finora unico lungometraggio del regista nato a Verona Pietro Reggiani, L’estate di mio fratello (2005) è un film che contiene in sé un piccolo paradosso: per la sua realizzazione, tecnicamente: dal primo shot all’ultimo, sono passati 7 anni, periodo che tra l’altro ha permesso di dare verosimiglianza al finale mantenendo lo stesso cast solo un po’ più invecchiato. Paradosso perché. Perché la gestazione così lunga dell’intero progetto stride con il suo stesso contenuto: un parto stroncato, una nascita mai avvenuta.
Planando sulle dolci colline veronesi, assistiamo al ritratto antropologico di una famiglia italiana negli anni ’70 che si reca in villeggiatura per il periodo estivo. Ma l’interesse sfugge ad un taglio storicizzante poiché il cinema si mette a servizio della fantasia, la fantasia di un bambino. Ci sono, inutile negarlo, indizi che fotografano un’epoca e una famiglia, tuttavia ritengo che l’attenzione cinefila debba concentrarsi su come la settima arte sia capace di assecondare, esaltare, concretizzare, l’immaginazione di Sergio.
Il cinema diventa il canale che permette alla creatività del bambino di palesarsi ai nostri occhi, ora è un medico, ora è un astronauta, sconfinando perciò il recinto della realtà per velare fiabescamente la vicenda.
Si creano allora due registri differenti: il primo lo si potrebbe definire “cinema reale” e mostra con semplicità la storia come essa è, il secondo, senza troppa originalità, è un “cinema fantastico” ed inquadra nuovamente con semplicità ciò che Sergio vede, o meglio, immagina.
La coesistenza di queste due forme, visioni, declinazioni, o quel che più vi garba di cinema, coesistono innocue fino a quando il giovane protagonista non spinge il fratellino invisibile sulla graticola.
Pur avendo la consapevolezza che l’aborto della madre non ha ovviamente altre cause se non quelle naturali, la collisione tra realtà e fantasia scurisce una narrazione fino a quel momento lieve, trasognante, fanciullesca, e accresce il valore dell’opera grazie all’instaurarsi di sentimenti opposti, dall’invidia al senso di colpa, dall’egoismo alla fratellanza. Il che comporta inevitabilmente una crescita personale per Sergio che smette i panni da bimbo quando dice al fratello una frase tremenda: “Tu non esisti.”
Ma in realtà esiste, esiste grazie a un cinema che se da una parte toglie la vita con una vestaglia insanguinata, dall’altra la dona, per sempre, almeno a giudicare da chi è seduto su quel pullman che sfreccia via dall’ultima inquadratura del film.
Primo e finora unico lungometraggio del regista nato a Verona Pietro Reggiani, L’estate di mio fratello (2005) è un film che contiene in sé un piccolo paradosso: per la sua realizzazione, tecnicamente: dal primo shot all’ultimo, sono passati 7 anni, periodo che tra l’altro ha permesso di dare verosimiglianza al finale mantenendo lo stesso cast solo un po’ più invecchiato. Paradosso perché. Perché la gestazione così lunga dell’intero progetto stride con il suo stesso contenuto: un parto stroncato, una nascita mai avvenuta.
Planando sulle dolci colline veronesi, assistiamo al ritratto antropologico di una famiglia italiana negli anni ’70 che si reca in villeggiatura per il periodo estivo. Ma l’interesse sfugge ad un taglio storicizzante poiché il cinema si mette a servizio della fantasia, la fantasia di un bambino. Ci sono, inutile negarlo, indizi che fotografano un’epoca e una famiglia, tuttavia ritengo che l’attenzione cinefila debba concentrarsi su come la settima arte sia capace di assecondare, esaltare, concretizzare, l’immaginazione di Sergio.
Il cinema diventa il canale che permette alla creatività del bambino di palesarsi ai nostri occhi, ora è un medico, ora è un astronauta, sconfinando perciò il recinto della realtà per velare fiabescamente la vicenda.
Si creano allora due registri differenti: il primo lo si potrebbe definire “cinema reale” e mostra con semplicità la storia come essa è, il secondo, senza troppa originalità, è un “cinema fantastico” ed inquadra nuovamente con semplicità ciò che Sergio vede, o meglio, immagina.
La coesistenza di queste due forme, visioni, declinazioni, o quel che più vi garba di cinema, coesistono innocue fino a quando il giovane protagonista non spinge il fratellino invisibile sulla graticola.
Pur avendo la consapevolezza che l’aborto della madre non ha ovviamente altre cause se non quelle naturali, la collisione tra realtà e fantasia scurisce una narrazione fino a quel momento lieve, trasognante, fanciullesca, e accresce il valore dell’opera grazie all’instaurarsi di sentimenti opposti, dall’invidia al senso di colpa, dall’egoismo alla fratellanza. Il che comporta inevitabilmente una crescita personale per Sergio che smette i panni da bimbo quando dice al fratello una frase tremenda: “Tu non esisti.”
Ma in realtà esiste, esiste grazie a un cinema che se da una parte toglie la vita con una vestaglia insanguinata, dall’altra la dona, per sempre, almeno a giudicare da chi è seduto su quel pullman che sfreccia via dall’ultima inquadratura del film.
l'ho visto al cinema qualche anno fa, non è indimenticabile, ma ne ho un ricordo buono, un film sincero
RispondiEliminaConcordo sul "sincero". Spesso diciamo male cose sul cinema italiano, ma quando propone prodotti accettabili come questo parlarne è cosa buona e giusta.
RispondiElimina