sabato 10 settembre 2011

Room in Rome

Nella notte più corta dell’anno due donne si incontrano a Roma. Una è russa, l’altra spagnola.
Senza sapere nulla di loro passano la nottata insieme in una camera d’albergo mentre Cupido volteggia su di loro.

Impressioni contrastanti durante la visione di Habitación en Roma (2010).
Conoscendo ormai piuttosto bene il linguaggio di Julio Medem, le sensazioni positive relative ad un’impostazione che finalmente sfugge al suo manierato modello all’inizio ci sono tutte. Riacciuffando l’esaltazione della femminilità, con relativa emancipazione, di Chaotic Ana (2007), il regista basco cuce una prosecuzione dell’argomento completamente racchiusa all’interno di una stanza, o, ad essere onesti, all’interno di un letto. Per una volta, dunque, i fantasiosi ma anche ripetitivi voli pindarici dell’autore sono ben lontani da qui, il massimo sforzo inventivo viene convogliato all’interno di un programma simile a Google Earth. Ciò con cui abbiamo a che fare allora sono due corpi nudi e bellissimi, rispettivamente quelli di Elena Anaya e Natasha Yarovenko, ma se ricordate Medem si è sempre trattato molto bene in fatto di attrici (il raggio di sole Paz Vega in Lucía y el sexo, 2001), i quali lentamente si amalgamano carnalmente attraverso la rappresentazione più difficile da rappresentare: l’innamoramento, per di più nello spazio di una notte, quella breve e irrepetibile del solstizio d’estate. Conscio di tale difficoltà, Medem riproduce in piccola scala le varie tappe di un rapporto segnato da andamenti curvilinei: l’incontro, la passione bruciante, il passato, il cuore spezzato (miglior scena), la rottura e la separazione. Al di là della libido maschile nel vedere questi due capolavori della natura intrecciarsi fra le lenzuola, si coglie un quid che va oltre la recitazione riuscendo ad esprimere una certa veridicità del sentimento.

Ma è proprio quando tutto sembra filar liscio che le intromissioni stilistiche medemiane iniziano a sgomitare nel quadro diegetico facendo emergere l’ossessione principe, quella del doppio, assoluto leitmotiv della carriera, che qui si sostanzia nella duplice figura Dasha/Natasha, la classica donna che ne contiene un’altra. Il gioco di matrioske, sebbene meno accentratore rispetto al passato, fa scivolare la pellicola nell’usurato schema di Medem dove l’amore di a, in questo caso diciamo Alba, palpita fra estremi tumultuosi e sofferenti nei confronti di b che allo stesso tempo è anche d.
Idea carina se proposta una o due volte, ma ritrovarla in ogni film no.
L’aggravio negativo si profila poi con un paio di scelte, prima fra tutte l’inserimento dell’unico personaggio maschile interpretato dal nostro Enrico Lo Verso che oltre ad essere superfluo è dozzinalmente stereotipizzato. Inoltre a causa di un minutaggio bello robusto alcuni passaggi dialogici sono tirati per i capelli, soprattutto quelli in prossimità dei cambi di scena nei quali si sente una rigidità fra le due attrici.
E comunque la sensazione generale che Medem si trascina dietro dai tempi di Vacas (1992) pur con qualche eccezione (Gli amanti del Circolo Polare, 1998) è quella di un talento che c’è ma che nella continua ostentazione non assurge rimanendo parecchio latente.
Room in Rome è perciò lo specchio fedele di tutto ciò, tuttavia al suo interno ci sono scampoli di intensa sensualità su celluloide, se può bastare allora potrebbe anche piacervi.

4 commenti:

  1. l'ho visto..insomma..mica piaciuto poi tanto..

    RispondiElimina
  2. Ma il quadro nel film è famoso? Qualcuno può spiegarmi come mai verso la fine la vasca si riempie di acqua rossa! Cosa rappresenta il dolore, la perdita!

    RispondiElimina