Nel 1991 c’erano due categorie di persone che andavano a ballare: chi dopo la discoteca tornava a casa, e chi invece tornava a ballare. Noi facevamo parte del secondo gruppo, e ne andavamo fieri.
Quella sera i chilometri che separavano Alessandria da Empoli sembravano interminabili. Nella Uno Turbo di Massi per una volta non si respirava nessun tipo di aria oppiacea, ma soltanto un’aria triste. Io mi ero appena mollato con la tipa; Giansa (abbreviazione di Giansarini) era a secco di pastiglie perché il suo rifornitore l’avevano beccato due giorni prima nei vicoli di Genova che smazzava del fumo; e Andrea, detto il sardo per le sue origini isolane, un tipo silenzioso che veniva con noi solo perché lo facevamo “mangiare” gratis, nei viaggi in macchina dormiva sempre, al punto che una volta, fermati da un posto di blocco, infilammo tutta la roba nelle sue tasche dicendo che lo stavamo portando all’ospedale perché si sentiva male. Il bello è che lui non si accorse di niente.
Insomma, ci stavamo dirigendo al Jaiss con il morale sotto le Adidas, e la cosa che più mi preoccupava era che alle sette del mattino ci aspettava un after nella villa di un tizio che abitava a Viareggio, un amico di Giansa che neanche Giansa stesso conosceva. E, dettaglio non trascurabile, eravamo a secco di qualunque sostanza illegale.
Arrivati nel parcheggio Giansa scrutò le auto intorno a noi, poi guardò me, Massi, il sardo, e scosse la testa. Non c’era un cazzo di nessuno di sua conoscenza. Per la prima volta entravamo completamente sani.
Il locale era stracolmo, e mentre i bpm smuovevano la folla ma non le nostre gambe, un tizio che sembrava il sosia di Gesù Cristo con tanto di petto villoso e capello sudato, si avvicinò furtivamente al sardo, la persona più facilmente imbarcabile che esisteva sulla faccia della terra.
Purtroppo fui l’unico ad accorgermene perché Massi e Giansa avevano accerchiato una ragazza, probabilmente inconsapevole del luogo in cui si trovava, che si dimenava come una ballerina di lap-dance. Cercando di raggiungere il sardo per mandare via quello che senza dubbio era un tira culi in piena regola, un tizio dalla mascella tremolante mi diede uno spintone, stavo già preparando il tipico sguardo da “cazzo fai?”, quando riconobbi in quegli occhi spenti il viso di Paolino. E se c’era Paolino c’era anche la mia ex.
La mia testa incominciò un ping-pong tra le facce che mi circondavano illuminate dalle luci stroboscopiche e da flash accecanti. Poi la vidi che ballava dietro a uno che conoscevo di vista. Dovevo parlarle e affanculo il sardo.
Certo, parlare è una parola grossa quando hai un impianto che ti spara watt su watt nell’orecchio, ma i suoi ripetuti no con la testa sarebbero stati eloquenti anche per un sordo.
Subito dopo Giansa e Massi mi piombarono addosso sventolandomi davanti un sacchettino trasparente con dentro delle “blu” regalate da Paolino. Ne avevo assolutamente bisogno. Prima ne presi un quartino, poi visto che tardava a salire ne presi una intera. E affanculo la mia ex.
Iniziammo a ballare al centro pista, con le gambe leggere che sembravano molle, abbracciandoci noi tre. Io Massi e Giansa, gli amici di sempre. Alla fine arrivò l’ultimo disco: “I will found you” cantato a squarciagola mentre le luci della sala si stavano accendendo e la voce gracchiante di Franchino dava appuntamento al sabato successivo.
Poi tutto si fece confuso.
All’improvviso sentii mancarmi l’aria e corsi a perdifiato oltre la fila del guardaroba, in un attimo le mie mani si poggiarono sul cemento della strada.
E mentre tutto roteava vorticosamente come se il mondo fosse diventato una discoteca palpitante, la vidi per la prima volta. Una scimmia imponente, immobile, a due passi da me, con gli occhi esangui che mi fissavano, e io li sentivo entrarmi dentro più delle anfetamine che viaggiavano nel mio corpo. Forse implorai pietà, forse piansi mentre della bava bianca si affacciava sulle mie labbra. Senza neanche rendermene conto mi ero trascinato quasi sul ciglio della strada, e intanto attorno a me udivo voci di persone con i loro occhi indiscreti che si interrogavano su come fosse possibile che nel 2010 ci fosse ancora della gente che si riduceva in queste condizioni…
Cazzo… siamo nel 2010.
Deve essere colpa della roba, mi riporta nel passato facendomi perdere la cognizione del tempo.
Quella sera del ‘91 fu il mio primo collasso, quando mi risvegliai Giansa e Massi erano accanto a me sull’ambulanza, loro erano in piedi però, io in un lettino con una flebo che mi iniettava chissà quale soluzione ricostituente.
Ora nelle mie vene ci spruzzo solo eroina, bianca, la più pura, la migliore.
E in queste notti passate al freddo di una panchina rivedo quella grossa scimmia che mi fissa con i suoi occhi tondi e bianchi, lei sa che prima o poi mi prenderà e per questo mi aspetta in silenzio. Ma io voglio illudermi che quell’after a Viareggio sia domani, e che la macchina di Massi con dentro Giansa e il sardo spunti da un momento all’altro dietro l’angolo.
Quella sera i chilometri che separavano Alessandria da Empoli sembravano interminabili. Nella Uno Turbo di Massi per una volta non si respirava nessun tipo di aria oppiacea, ma soltanto un’aria triste. Io mi ero appena mollato con la tipa; Giansa (abbreviazione di Giansarini) era a secco di pastiglie perché il suo rifornitore l’avevano beccato due giorni prima nei vicoli di Genova che smazzava del fumo; e Andrea, detto il sardo per le sue origini isolane, un tipo silenzioso che veniva con noi solo perché lo facevamo “mangiare” gratis, nei viaggi in macchina dormiva sempre, al punto che una volta, fermati da un posto di blocco, infilammo tutta la roba nelle sue tasche dicendo che lo stavamo portando all’ospedale perché si sentiva male. Il bello è che lui non si accorse di niente.
Insomma, ci stavamo dirigendo al Jaiss con il morale sotto le Adidas, e la cosa che più mi preoccupava era che alle sette del mattino ci aspettava un after nella villa di un tizio che abitava a Viareggio, un amico di Giansa che neanche Giansa stesso conosceva. E, dettaglio non trascurabile, eravamo a secco di qualunque sostanza illegale.
Arrivati nel parcheggio Giansa scrutò le auto intorno a noi, poi guardò me, Massi, il sardo, e scosse la testa. Non c’era un cazzo di nessuno di sua conoscenza. Per la prima volta entravamo completamente sani.
Il locale era stracolmo, e mentre i bpm smuovevano la folla ma non le nostre gambe, un tizio che sembrava il sosia di Gesù Cristo con tanto di petto villoso e capello sudato, si avvicinò furtivamente al sardo, la persona più facilmente imbarcabile che esisteva sulla faccia della terra.
Purtroppo fui l’unico ad accorgermene perché Massi e Giansa avevano accerchiato una ragazza, probabilmente inconsapevole del luogo in cui si trovava, che si dimenava come una ballerina di lap-dance. Cercando di raggiungere il sardo per mandare via quello che senza dubbio era un tira culi in piena regola, un tizio dalla mascella tremolante mi diede uno spintone, stavo già preparando il tipico sguardo da “cazzo fai?”, quando riconobbi in quegli occhi spenti il viso di Paolino. E se c’era Paolino c’era anche la mia ex.
La mia testa incominciò un ping-pong tra le facce che mi circondavano illuminate dalle luci stroboscopiche e da flash accecanti. Poi la vidi che ballava dietro a uno che conoscevo di vista. Dovevo parlarle e affanculo il sardo.
Certo, parlare è una parola grossa quando hai un impianto che ti spara watt su watt nell’orecchio, ma i suoi ripetuti no con la testa sarebbero stati eloquenti anche per un sordo.
Subito dopo Giansa e Massi mi piombarono addosso sventolandomi davanti un sacchettino trasparente con dentro delle “blu” regalate da Paolino. Ne avevo assolutamente bisogno. Prima ne presi un quartino, poi visto che tardava a salire ne presi una intera. E affanculo la mia ex.
Iniziammo a ballare al centro pista, con le gambe leggere che sembravano molle, abbracciandoci noi tre. Io Massi e Giansa, gli amici di sempre. Alla fine arrivò l’ultimo disco: “I will found you” cantato a squarciagola mentre le luci della sala si stavano accendendo e la voce gracchiante di Franchino dava appuntamento al sabato successivo.
Poi tutto si fece confuso.
All’improvviso sentii mancarmi l’aria e corsi a perdifiato oltre la fila del guardaroba, in un attimo le mie mani si poggiarono sul cemento della strada.
E mentre tutto roteava vorticosamente come se il mondo fosse diventato una discoteca palpitante, la vidi per la prima volta. Una scimmia imponente, immobile, a due passi da me, con gli occhi esangui che mi fissavano, e io li sentivo entrarmi dentro più delle anfetamine che viaggiavano nel mio corpo. Forse implorai pietà, forse piansi mentre della bava bianca si affacciava sulle mie labbra. Senza neanche rendermene conto mi ero trascinato quasi sul ciglio della strada, e intanto attorno a me udivo voci di persone con i loro occhi indiscreti che si interrogavano su come fosse possibile che nel 2010 ci fosse ancora della gente che si riduceva in queste condizioni…
Cazzo… siamo nel 2010.
Deve essere colpa della roba, mi riporta nel passato facendomi perdere la cognizione del tempo.
Quella sera del ‘91 fu il mio primo collasso, quando mi risvegliai Giansa e Massi erano accanto a me sull’ambulanza, loro erano in piedi però, io in un lettino con una flebo che mi iniettava chissà quale soluzione ricostituente.
Ora nelle mie vene ci spruzzo solo eroina, bianca, la più pura, la migliore.
E in queste notti passate al freddo di una panchina rivedo quella grossa scimmia che mi fissa con i suoi occhi tondi e bianchi, lei sa che prima o poi mi prenderà e per questo mi aspetta in silenzio. Ma io voglio illudermi che quell’after a Viareggio sia domani, e che la macchina di Massi con dentro Giansa e il sardo spunti da un momento all’altro dietro l’angolo.
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