martedì 11 febbraio 2020

Triptych

Avendo visionato i primi due lavori brevi di Pedro Pires, Danse macabre (2009) e Hope (2011), era pronosticabile pensare che il lungometraggio di debutto, Triptyque (2013), diretto a quattro mani con l’attore teatrale Robert Lepage, fosse un saggio estetizzato (e anestetizzato) con una forma laccata e patinata a più non posso, e in effetti è ciò che in buona parte si ravvisa: un film “normale” è reso leggermente “diverso” da un’impostazione visiva che dà molta importanza alle componenti di superficie, qui si registra una continuità dei toni ambrati, autunnali, tanto che sarebbe interessante comprendere le ragioni (oscure) di tale scelta cromatica da parte dei registi. E se ci occupiamo di linguaggio tecnico anche nella sintassi del montaggio vi sono particolarità, non c’è da metterci la mano sul fuoco ma è intuibile una profusa atemporalità che anticipa o posticipa gli eventi, niente di così eclatante, certo, tuttavia si avvertono degli scompensi narrativi durante il dispiegarsi della storia. Eppure, nonostante questi piccoli segnali che non so fino a che punto possono essere definiti di stile, non è che l’esordio di Pires osi chissà quanto, nemmeno con l’involucro dell’opera dove al contrario era auspicabile qualcosa di davvero memorabile, anzi chi scrive ammette sinceramente di essere rimasto oltremodo deluso dalla veste di Triptyque.

Il motivo è forse dato dal fatto che la vicenda rappresentata, nata dalla penna di Lepage, è proprio una roba spenta, anti-attrattiva, barbosa, che finisce per sminuire le stesse modalità con cui viene proposta, e se ci mettiamo ad elucubrare sulla materia-racconto, sui possibili sottotesti e sugli eventuali significati, non è così facile estrapolare dei concetti definiti e soprattutto stimolanti per il pubblico. Quello a cui presenziamo è una sottospecie di dramma famigliare che collega le sorelle Michelle e Marie più il marito chirurgo di quest’ultima (interpretato da un attore tedesco di nome Hans Piesbergen che è un incrocio tra David Bowie e Sharunas Bartas), e al di là dei vari risvolti tramici (che suscitano ben poco interesse), sembrerebbe che Pires e Lepage vogliano focalizzare la loro attenzione sul cervello umano e sui meccanismi custoditi al suo interno, detta così capisco che la cosa non sia granché chiara ma è la precisa traduzione degli eventi sullo schermo: c’è, a mio avviso, un po’ di confusione, o di mala gestione di taluni aspetti, perché ok, la materia celebrale è quella che preme, dentro al cranio dei tre protagonisti ci sono dei problemi, tuttavia la pellicola dopo l’operazione di Marie (ah, dubbio razionale: ma interventi del genere vengono fatti col paziente cosciente?!) prende una piega più personale con la ricerca vocale del padre scomparso che appare disunita rispetto a quanto l’ha preceduta. Ed è solo un esempio poiché Triptyque mostra una diffusa tendenza a procedere per compartimenti semi-stagni privi di una fluidità che gli garantisca di avere un più ampio respiro, quello che  farebbe raggiungere le mire filosofiche preposte.

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