domenica 9 febbraio 2020

My House Without Me

Goditi la guerra, la pace sarà peggio.

Due anziane donne, una polacca e una tedesca, raccontano a Magdalena Szymkow, regista classe ’73 che lascia intravedere possibili, interessanti, sviluppi futuri, le loro vite in relazione a quel mostro divora-tutto che risponde al nome di Guerra ed alle conseguenze devastanti che da essa derivano. Una di queste, che è poi il cuore di Mój dom (2012), riguarda la concezione di “casa”, sia in un’ottica esplicitamente concreta che concettuale, o forse è meglio dire sentimentale. In tutta onestà il corto non illustra per filo e per segno (e non è che sia una cosa negativa) come le due donne si siano ritrovate vicine (… in Siberia deportate dall’esercito sovietico?) pur appartenendo a due Paesi differenti, quanto comunque emerge, e ce lo facciamo andare bene, è la condivisione di una similare esperienza tragica e scioccante in cui entrambe sono state costrette a raccattare ciò che avevano a portata di mano (“non ci hanno lasciato prendere neanche una bambola, né una pentola o una padella”) e andarsene via, verso l’ignoto, verso la paura (“gli occhi dei lupi sono come fiamme nella notte […], i loro occhi sono come torce nella notte”). Insomma, è uno di quei casi in cui dalla Storia si propaga un’emorragia di altre storie, piccole e sconosciute, che però aiutano ad intendere meglio la misura di un dramma globale.

Tecnicamente il film si avvale dell’asciuttezza tipica delle interviste impreziosita dall’inserimento di immagini d’archivio. La Szymkow e i suoi collaboratori centrano la questione, il cinema è un ambiente eccezionale per implementare il ricordo di un singolo. I filmati in bianco e nero che scorrono sulle parole delle due signore aumentano il tasso di trasporto/immedesimazione, anche se non c’è un’effettiva correlazione tra ciò che viene detto e ciò che viene visto. È del resto la lezione del nume tutelare Chris Marker che si perpetua negli anni rivelando, per l’ennesima volta, la forza della settima arte applicata all’area mnemonica. In aggiunta la regista si dedica a delle piacevoli sovrapposizioni visive (niente male quella del treno che sfuma in un bosco mentre ascoltiamo la testimonianza della deportazione) che ci suggeriscono dei collassi tra passato e presente, accenni, ammalianti accenti per un lavoro degno di attenzione cinefila.

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