lunedì 27 gennaio 2020

Coincoin and the Extra-Humans

A parte la crescita anagrafica di Quinquin ed il correlato cambio di appellativo in Coincoin, non ci sono grandi differenze tra P’tit Quinquin (2014) e Coincoin and the Extra-Humans (2018): se nella prima stagione della mini-serie degli strani omicidi scuotevano la tranquillità di un paesino francese affacciato sulla Manica, nella seconda l’iter narrativo è identico, nuovamente accadono dei fatti misteriosi e sempre nuovamente il comandante Van der Weyden insieme al fido Carpentier si mettono ad indagare per arrivare ad una soluzione. Sullo sfondo, ma anche in primo piano, Coincoin e i suoi amici sono coinvolti in prima persona nelle varie incomprensibili situazioni che mano a mano vanno a presentarsi. Le due serie di Bruno Dumont sono quindi strutturalmente speculari, davvero in tutto: nelle premesse, nello svolgimento ed anche nella risoluzione che ovviamente non c’è perché, come sappiamo, dare una spiegazione non è nelle mire del regista pertanto il finale diventa la cosa più lontana possibile da uno scioglimento investigativo, da una chiusa razionale ed esaustiva, e onestamente non c’è niente come spettatore che mi rende più felice di quando vengono adottati procedimenti che non si attengono ad ogni costo alla logica della rivelazione. Che Dumont ritroviamo allora? Quello “sperimentatore” di Jeannette (2017) o quello (al tempo innovatore, per la sua stessa filmografia) di P’tit Quinquin e di Ma loute (2016)?

Domande pleonastiche ma utili ad inquadrare Coincoin. La piccola notizia è che Dumont, a ’sto giro, si inoltra in un ulteriore sentiero categoriale. Appare infatti lampante che L’invasione degli ultracorpi (1956) sia stata la principale fonte di ispirazione per l’autore, ne consegue che anche la fantascienza, dopo la commedia ed il musical, diventa un genere affrontato da BD, vieppiù che sul finale, se vogliamo, si sconfina addirittura nell’horror romeriano con l’apparizione di una zombesca Aurélie. Ma in realtà, almeno rimanendo nell’area di questo film, la varietà dell’approccio è una patina che addobba solo in superficie un oggetto rispondente per filo e per segno al volere del suo demiurgo. L’ho già detto ma mi ripeterò: non riesco ad essere un fan della tragicommedia dumontiana, fatico a vedere una perfetta aderenza tra i classici stilemi comici e i tempi imposti da Dumont. Magari sbaglierò traiettoria di giudizio ricordando romanticamente il passato mentre qui ormai parliamo, dopo ben tre pellicole, di un’idea di comicità assodata, praticamente un canone, tuttavia, dopo, appunto, tre film, trovo alcune scene(tte) ancora balbettanti, a tratti perfino ibride perché incapaci di scavallare realmente nel grottesco o nella risata più banale, preferendo sostare in un limbo non pienamente soddisfacente. Sicuramente mi prendo la responsabilità di additare le derive slapstick (vedi spintonamenti tra i due poliziotti) che proprio non trovo divertenti, parimenti l’insistere sulla prosopopea di Van der Weyden e le annesse espressioni incredule di Carpentier ricadono un po’ nella ripetizione [1], indubbiamente i siparietti sono caratterizzanti però non brillano per varietà.

Sarei comunque parecchio stolido a liquidare in due righe la coppia di agenti visto che, e correggetemi se sbaglio, sono loro il moto portante dell’opera, sono loro che si rapportano con tutti gli altri personaggi del paese e sono sempre loro che portando avanti la sgangherata indagine rendono edotti gli spettatori sui – per così dire – progressi dell’inchiesta. Sono due figure, due vere e proprie maschere che, al netto di alcuni frangenti dove il modus operandi di Dumont dà la sensazione che si poteva dare di più e meglio al registro della commedia, funzionano, e tanto, al punto di far intravedere una forza tale da poter essere i soggetti principali di una serie ad hoc di cui sarei il primo sostenitore. In Coincoin i momenti migliori che li riguardano si trovano nel terzo e nel quarto episodio quando il doppio del comandante inizia a imperversare nel villaggio creando scompiglio nella mente del povero Carpentier, anche qui ribadisco la non piena riuscita di talune sequenze (il controllo in automobile del signor Lebleu o l’appostamento fuori dalla casa che pare attirare i cloni), ma, ad esempio, la telefonata tra i due Van der Weyden o in generale i diffusi misunderstandings che vengono a crearsi sono alquanto spassosi. Per dovere di cronaca va riportato che in Coincoin c’è una nuova sfumatura nella delineazione dell’ispettore, non è velata infatti la sua avversione verso dei migranti accampati nei pressi del paese, e se aggiungiamo il rifiuto di stringere la mano all’imam della comunità locale, questa sua ottusità (non me la sento di definirlo razzismo) ce lo fa risultare meno macchietta stile fratelli Marx e più individuo della realtà (piena di gente ottusa, del resto), senza comunque smarrire la buffa cifra che lo contraddistingue.

È strana la presenza dei migranti, sono gli unici a non avere contatti diretti con la nera sostanza che precipita dal cielo, vagano in gruppo senza avere rapporti con i paesani. Il fatto che ci siano è un plausibile aggancio al presente (sarebbe un po’ il medesimo procedimento usato per Van der Weyden, ovvero la costruzione di un quadro irreale in cui si innestano particolari concreti), alla mera realtà della cronaca (ricordiamo che siamo in una zona vicina a Calais). Ma non solo. Un’interpretazione che avanzo vedrebbe gli uomini di colore che errabondano a gruppetti per le strade una minaccia fittizia costruita da Dumont il quale ironicamente (e questa è davvero l’ironia che piace) rovescia l’opinione comune (impersonata dal comandante ma potrebbe esserci qualunque altro cittadino medio al suo posto, tipo i sostenitori del partito Bloc, altro aggancio alla contemporaneità) che si ha dei migranti, sicché, per mezzo dello stratagemma dei cloni umani (e poco importa quale sia la loro vera natura) si rende evidente che il vero pericolo non viene da dei negri che vivono in una baraccopoli o nell’umidità di una galleria, ma dai nostri simili. Dal bonario signor Lebleu, dal ritardato Dany, dalla dolce Eve e via dicendo. La lezione è una lezioncina moraleggiante? A leggere potrà sembrarvi così, nel flusso del film una tale decrittazione non è evidente e quindi la potenziale lettura va scovata.

Tutto ciò conduce ad un finale che è il Finale delle due serie. Come detto nel primo paragrafo a Dumont non interessa dare spiegazioni, per cui sceglie di concludere Coincoin con una chiusura del cerchio capace di riunire in una grande festa colorata coloro i quali hanno dato vita [2] (e morte, ci sono anche i deceduti della stagione precedente per l’occasione redivivi) per otto puntate al teatrino tragicomico che tanto è piaciuto ai Cahiers. È una apocalisse ludica che (si) sbeffeggia mandando a monte ogni congettura fatta fino a quel momento. Della melma cade dal cielo e una lucina volante insemina degli esseri umani che per mezzo di una peto-genesi figliano dei propri cloni? I defunti tornano dall’aldilà senza un perché? Dumont risponde evitando di rispondere, la sua Fine è una sarabanda, un cerchio perpetuo (ultima inquadratura aerea) che gira in tondo. Tanto tempo fa il caro Bruno ci toglieva il fiato con ben altre tipologie di resurrezioni (cfr. Hors Satan, 2011), adesso allestisce una parata carnevalesca per mettere un punto al proprio discorso. Che si può fare?... ci si accontenta.
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[1] A sproposito, in riferimento a P’tit Quinquin Dumont aveva affermato che i tic di Bernard Pruvost sulla scena erano dovuti anche – e non esclusivamente suppongo – all’utilizzo di auricolari attraverso cui il regista gli comunicava le battute da dire. Ebbene, in Coincoin gli auricolari sono assolutamente ben visibili sia nell’orecchio di Van der Weyden che in quello di Carpentier.

[2] C’è anche un piacevole cammeo di Emmanuel Schotté, il primo detective nella filmografia dumontiana apparso ne L’umanità (1999), che qui se la deve vedere con un gabbiano oltremodo aggressivo.

1 commento:

  1. P’tit Quinquin mi era piaciuto di più di Coincoin, ma siamo sempre ad alti livelli...

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