Mi interessa però circoscrivere La última tierra non tanto da un punto di vista categoriale, dell’etichetta, quanto nella collocazione che ha dentro al sistema-cinema, perché riflettendo su ciò ho fatto a me medesimo delle domande. “Sistema” è la parola chiave, questo, sono pronto ad essere smentito ma a fine visione ho percepito la seguente impressione, è un prodotto da Festival, stop. È passato a Rotterdam e a Torino, ha raccolto diverse candidature (oltre che un premio proprio in Olanda) e immagino che abbia fatto compiacere i critici della loro sagacia mentre assistevano alle lunghe parentesi meditative. Tutto lecito e tutto inattaccabile, se non fosse che di oggetti festivalieri, francamente, ne abbiamo fin sopra i capelli. Perché poi si verifica il rischio che un titolo all’apparenza intransigente conformandosi ad altri suoi simili divenga quasi reazionario, e la cifra anticonvenzionale, di riflesso, si fa solo patina esterna in procinto di essere grattata via da qualche proiezione davvero profonda, davvero immersiva, davvero sanguinante. Non vorrei apparire un cazzo di saputello che snobba lo sforzo di un giovane regista perché il suo lavoro è passato attraverso rassegne cinematografiche non sufficientemente sotterranee (e Rotterdam ad ogni modo non è una roba da tappeti rossi), il fatto è che la cornice espositiva conta parecchio (credo che il discorso valga anche per l’arte pittorica e l’arte concettuale) e in taluni casi vi è una ricaduta anche sull’esibizione in sé. Allora, se si vuole prendere atto di un’eccellenza in La última tierra, l’impianto sonoro è dove direzionarsi, del resto Lamar è un professionista del settore avendo collaborato con Ricardo Alves Jr. per Tremor (2013) e con João Salaviza per Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos (2018 – altro film dove ho patito il taglio da mostra... starò mica diventando allergico?).
giovedì 17 agosto 2023
La última tierra
La última
tierra (2016) si apre con un cerino e si chiude in un incendio,
nel mezzo c’è un lungo rituale luttuoso che l’esordiente
paraguayano Pablo Lamar riprende con fare da autore affermato, la
caratteristica principe del film è una dilatazione dei tempi, solo
che la prima sequenza dura tredici minuti e ha soltanto un cambio di
inquadratura, è cinema contemplativo? Mmm verrebbe da dire sì
perché c’è una forte componente naturalistica che viene osservata
in religioso silenzio, ma verrebbe da dire anche no perché comunque
si tratta di un’opera che ha una precisa impostazione finzionale
con attori e – seppur risicata al minimo – anche una trama. Per
cui, combattuti nel tentativo di fornire un’identità, elenchiamo
gli elementi che comunque dovrebbero poter essere letti come
positivi: in cima, la sfrontatezza di Lamar che azzerando i dialoghi
detta un ritmo iper-compassato fruibile solo da chi ha molta
pazienza, in seconda battuta l’apparato estetico brilla di una sua
classe, prendiamo l’incipit dalla fotografia ambrata, il tenue
chiarore della candela, il capezzale caravaggesco, sicuramente non
male, e ancora meglio la scena successiva con una saturazione dello
schermo di luce abbacinante, dopo diciamo che si rientra abbastanza
nei ranghi, pur rimanendo su un buon livello non ho trovato niente
con lo stesso impatto del prologo funereo, neanche il finale con la
casa divorata dalle fiamme. Lamar deve essersi studiato bene i lavori
di alcuni suoi colleghi continentali (Reygadas continua ad
influenzare le nuove leve) traendone il gusto per l’originarietà e
la finitezza delle cose, quel testacoda che va dal molto piccolo (due
vecchietti e una capanna) all’infinitamente grande (la morte, of
course). Di esempi ce ne sono a iosa, lascio a voi il giochino della
comparazione.
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