venerdì 9 giugno 2023

The Woods Dreams Are Made of

Prima di vedere Le bois dont les rêves sont faits (2015) non avevo idea di chi fosse Claire Simon, ma a film ultimato, durante il solito rintracciamento di informazioni per rimpolpare il commento, ho letto una frase citata sulla sua pagina francese di Wikipedia (link) che mi è subito piaciuta molto: “si la banalité contient de la fiction, le travail de la cinéaste est de la débusquer”, è un pensiero che leggo in due modi, entrambi sostenibili in un’ottica autoriale, nel primo scorgo una frecciatina agli impianti finzionali che caratterizzano il cinema per il grande pubblico, mentre nel secondo vedo una vera e propria manifestazione di intenti che accoglie la mia personale predisposizione verso la settima arte, l’unico termine che sostituirei è “réalité” con “banalité” e poi il concetto, per me, sarebbe perfetto. Una tale spinta teorica di ricercare una vena narrativa anche in un materiale di per sé crudo come lo è un documentario, si rispecchia anche in quest’opera che i Cahiers du cinéma misero al decimo posto nella loro top ten del 2016, Simon si avvale di un procedimento non troppo dissimile da quello utilizzato dal nostro Giovanni Cioni, ovvero un insinuarsi in un tessuto sociale non semplice arrivando a toccare un certo grado di confidenza con le persone conosciute, il regista italiano è uno che va decisamente a fondo (in tutti i sensi che volete intendere), mentre qui la collega francese rimane più in superficie perché preferisce avanzare per quantità accumulando storie su storie, del resto l’ambiente delle riprese impone quasi una molteplicità di sguardi, ci troviamo infatti a Bois de Vincennes, un enorme parco pubblico non lontano da Parigi che è ciò che resta oggi di un’area boschiva d’epoca romana (praticamente il corrispettivo europeo del bosco urbano visto in Mata Atlântica, 2016), e cosa fa Claire Simon? Scandendo il tempo filmico attraverso il passare delle stagioni, si aggira per lo spazio verde incontrando l’umana varietà che lì vi transita, lavora o abita.

Non mi va di soffermarmi troppo sui lacerti esistenziali di cui siamo testimoni, dalle prostitute che operano tra le frasche passando per i gay solitari desiderosi di una sveltina, gli allevatori di piccioni, i pittori, i guardoni, i pescatori, i paria fino ad arrivare agli immigrati asiatici o africani, tutti i racconti che da essi fluiscono sono stimolanti e meritano di essere ascoltati, pertanto un grazie alla Simon vale la pena dirglielo. La pellicola tuttavia non è solo il mettere in fila delle pseudo-interviste da reportage televisivo, mi va di considerare il Bosco di Vincennes come un corpo vivo che trova nel cinema una maniera per essere ritratto, l’autrice non ha tempere e cavalletto ma il paesaggio che riesce a imprimere in video ha una moltitudine di sfumature e colori, certamente sono tonalità autunnali perché l’occhio si posa principalmente sugli sconfitti e gli emarginati, ed altrettanto certamente è in cornici del genere che si verificano fruttuosi scambi di empatia (penso alla commozione dell’uomo cambogiano che ha lasciato il padre nelle mani dei khmer rossi). Se Le bois... fosse musica sarebbe una melodia che scorre tra una riva di archi dall’ampio respiro malinconico e un’altra costituita da inserimenti elettronici, notturni, una ferita naturale vicina alla città da cui spurga un’umanità sulle tracce di una possibile resilienza, o più pragmaticamente la possibilità di un cinema che, come i maestri contemporanei insegnano, sa farsi forum di evocazioni, sia terrene che metafisiche (in un qualche tempo compare anche il fantasma di Gilles Deleuze), e che pur radicandosi nel reale si proietta in aperture con panorama sul mistero.

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