giovedì 13 aprile 2023

Zafir

Il primo cortometraggio di Omar El Zohairy non annovera quell’atmosfera grottesca che invece caratterizzerà il successivo The Aftermath of the Inauguration of the Public Toilet at Kilometer 375 (2014), peccato, un po’ ci speravo che Zafir (2011) avesse non dico un’identica tessitura globale ma almeno che presentasse dei semi pronti – in teoria – a germogliare, invece dobbiamo raffrontarci con un lavoro che vive nella consuetudine di giovani registi con mire autoriali. Non vorrei apparire un appassionato col nasino all’insù, e infatti non mi permetto di mettere in discussione la professionalità dell’egiziano che, sempre entro i confini della situazione, è assolutamente accettabile, sottolineo, “soltanto”, la scelta di rimanere in un recinto dalla base e (per buona parte) dallo sviluppo, piuttosto derivativi. Questo bozzetto di umana e senile solitudine funziona al massimo se lo si guarda con occhi che non chiedono troppo a papà-cinema, altrimenti è proprio arduo abbassare il freno per lasciarsi andare all’entusiasmo. L’ho ripetuto miliardi di volte, non è mai, in un oggetto narrativo, cosa viene raccontato (ché un catetere staccato è un’immagine che implica tutta una mestizia e una rassegnazione dietro mica da ridere), bensì il come, lo sanno anche i muri però non mi dispiace ribadire un concetto a dir poco fondamentale.

E comunque Zafir un minuscolo pregio ce l’ha, ed è ubicato nella sceneggiatura. Vedendo le amorevoli cure dell’anziano marito nei riguardi della moglie disabile, mi sono venuti in mente altri film che proponevano la storia problematica di un rapporto coniugale in età avanzata, non molti a dir la verità, ma sicuramente almeno tre: un corticino cipriota dal titolo Dead End (2013), un lungometraggio islandese (Volcano, 2011) e un’opera asciutta e rigorosa come Amour (2012), ebbene, tale triade ha in comune la scelta di concludersi con un atto funereo (ed è di dominio pubblico il fatto che Rúnarsson e Haneke abbiano usato il medesimo escamotage per la catarsi luttuosa), una tendenza che vuole creare shock nello spettatore e che il sottoscritto, soprattutto crescendo invecchiando, non riesce a digerire. Per cui temevo che anche El Zohairy si accodasse al trend, c’erano i presupposti per dare al preambolo un gratuito scioglimento mortuario, giuro, me lo sono aspettato fino all’ultima ripresa di spalle dell’uomo, invece mi sbagliavo, per fortuna quella che potrebbe essere definita una tensione non ha sfogo, o perlomeno non ce l’ha sullo schermo, il che vale al regista nato al Cairo una mini medaglia che gli appunto al petto, da lui, ora, attendo qualcosa di più sostanzioso.

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