A fronte degli aspetti sopra elencati che è difficile non considerare come positivi, il lavoro della Andini non mi ha persuaso in toto. Di opere indonesiane, se non erro, ne ho viste solo due, questa e Another Trip to the Moon (2015), casualmente, sebbene stiamo parlando di oggetti abbastanza diversi, per entrambi vale un po’ il discorso che tocca il passato cinefilo di noi spettatori. Se si è a digiuno di proiezioni dall’impostazione assimilabile a Sekala Niskala allora è probabile che la mia riflessione non abbia senso di esistere, se invece è già maturata una certa esperienza nell’ambito di riferimento è complicato lasciarsi andare ad elogi sperticati. Vorrei entrare nella questione per me fondamentale: l’alterità citata all’inizio. È incontrovertibile che essa ci sia e che funzioni da cuore palpitante della storia, mi chiedo però se la cornice esotica, ritualista, incorporea, in una parola banalizzante: diversa, a furia di ripresentarsi nel cinema contemporaneo non stia perdendo la posizione antitetica alla nostra, cioè è ancora un momento altro-da-noi l’assistere a pellicole del genere? Non discuto la fattualità del concreto, camminare in un tempio pullulante di scimmiette non sarà mai uguale al passeggiare nel silenzio di una chiesa rinascimentale, parlo di settima arte, delle modalità con cui la si vive e dei sentimenti che ne scaturiscono, e seguendo tale ragionamento in The Seen and Unseen mi è sembrato che un pilota automatico ne guidasse l’incedere verso un intero confezionato ad hoc per l’Occidente, sotto la fantasia e l’originalità mi si è profilato uno schema, un adagiarsi su elementi già esplorati nel passato recente. Non so, sarebbe arricchente se da qui ne nascesse un contraddittorio, dieci anni fa sarebbe successo. Che nostalgia.
a proposito di guerre
1 ora fa
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