lunedì 27 settembre 2021

Birds (or How to Be One)

Dopo due prove lanthimostyle di cui non sentivamo la mancanza come L (2012) e Miserere (2018), Babis Makridis con Birds (or How to Be One) (2020) sposta finalmente il suo cinema dalle secche di un’onda greca ormai ridotta a innocuo spruzzo, ma, è meglio frenare immediatamente l’entusiasmo, la transizione non è totale e quindi, comunque, si percepisce un substrato derivante dalle manifestazioni elleniche del decennio scorso, non tanto per l’impostazione, quanto per l’eccentricità che avvolge il tutto, va da sé che per il sottoscritto, alla fine, ciò che rimane maggiormente in fatto di somiglianze con la vague di riferimento sono i difetti, e non certo i pregi. La traccia di partenza è la commedia Gli uccelli di Aristofane dove, per sintetizzare, due uomini si mettono in testa di costruire una città nel cielo, in Birds la vicenda è per sommi capi traslata in un prontuario costituito da diversi step mirato alla mutazione dell’essere umano in volatile. Il registro utilizzato da Makridis è ibrido e mescola un taglio documentaristico con finestre stravaganti che constano di casting o robe simili, interviste a personaggi bizzarri, tizi o tizie che si esprimono in modo autistico (un retaggio del passato che evidentemente non si vuole perdere) e performance teatrali che potrebbero definirsi come sperimentali ma lascio ad altri magari più esperti il giudizio. Il risultato? Un minestrone dove ad esclusione di una delle prime scene con il divertente birdwatching nel parco pubblico che pareva far promettere bene, la confusione spadroneggia e pur mettendoci la massima dedizione si affaccia il pericoloso dubbio che scorticata via la patina sghemba non ci sia altro che un vuoto coperto da una foglia di fico artistoide.

Non è una faccenda solo razionale legata al capire, siamo nel 2021, la comprensione logica può anche andare a ramengo, e di questo Makridis ne è consapevole, talmente consapevole che purtroppo ce lo spiattella sullo schermo con una sequenza superflua nella quale uno dei soggetti ricorrenti si mette nei panni di uno spettatore chiedendosi a sua volta cosa accidenti stia guardando. No, è accettabile al giorno d’oggi rimanere invischiati nelle pastoie di un’opera che non si concede, che è refrattaria, che non ammette inclusione, ed anzi, spesso è perfino auspicabile!, il patto che però si stringe col regista di turno è che perlomeno vi siano degli elementi in grado di compensare lo squilibrio. Tali elementi sono variegati, possono riguardare l’invisibile, ovvero un fascio di energia che si sente, che coagula la frammentarietà messa in campo, o possono essere concreti come una tematica o un argomento generale che ogni tanto affiora per garantire un salvagente. Per Birds non sono riuscito a trovare niente di simile, al massimo pare di rapportarci con un prolungato esercizio di stile (ma di che stile stiamo parlando? Boh...), un’espressione cinematografica che è interessata a raccontarci null’altro che non sia il metodo espositivo che la caratterizza, il che troverà l’assenso di qualcuno, in fondo ci sono delle “immagini”, ma quel qualcuno non posso essere io. Forse ho maturato un pregiudizio troppo arcigno verso la cricca di Lanthimos, o forse il lavoro di Makridis è da rivedere, se non da rifondare in toto.

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