lunedì 21 dicembre 2020

O porto

Pensiamo al Paese di appartenenza, quell’enorme Brasile che da sempre è scenario di non livellabili scalini sociali, e pensiamo all’anno di produzione, il 2014, periodo in cui lì si svolsero i mondiali di calcio poi vinti dalla Germania, quindi è inevitabile che O porto si poggi su un piedistallo a sua volta infilato nel terreno della contemporaneità, tuttavia il lavoro breve firmato da ben otto mani e presentato al Festival di Rotterdam ’14 non ha delle mire di denuncia così lampanti, concentrandosi sulla e nella zona portuale di Rio de Janeiro le attenzioni vengono rivolte alle genericità dell’ambiente, scorci metropolitani, immagini dell’acqua ferma tra le banchine, ma anche edifici e cartoline notturne. Il prodotto avrebbe le carte in regola per affidarsi esclusivamente alla pragmaticità delle riprese, cosa che accade anche se Clarissa Campolina e soci manipolano il girato con alcune saturazioni di luce che a tratti diffondono una specie di nebbiolina in video, inoltre è presente una massiccia sezione sonora che accompagna i fotogrammi, non sembra un grande accoppiamento, vuoi per la qualità stessa delle musiche, vuoi per la tendenza ad enfatizzare laddove non ce ne sarebbe bisogno.

Tra un vedere non proprio appagante ed un sentire oltremodo respingente, i registi piazzano due sequenze che manifestano un po’ le loro intenzioni: la prima, presumibilmente effettuata all’interno di un treno, passa in rassegna ad alta velocità le gigantesche navi da crociera della Costa attraccate nel porto, il messaggio potrebbe essere chiaro: dove sta andando il Brasile nella sua corsa sostenuta? L’Ordem e Progresso stampigliati sulla bandiera si riflettono realmente nella società di oggi? Le risposte sono affidate ad un inaspettato controcampo virtuale dove la città viene ricreata tridimensionalmente in un progetto che appare molto più eco, smart, e via dicendo della concreta situazione urbana. Senza dubbio è proprio pochino per poter accendere l’interesse del fruitore, il disegno complessivo che ne esce è spento e incapace di sfruttare le potenzialità di ciò che è vero oltre l’obiettivo. Debole ed inessenziale, almeno agli occhi di un europeo, O porto si accomiata salpando lentamente verso il mare, lo sguardo rimane però puntato sul molo fino ai titoli di coda, conclusione “carina”, se tanto vi basta.

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