mercoledì 23 dicembre 2020

Costa da Morte

È un vero peccato non aver potuto vedere Costa da Morte (2013) su un grande schermo perché è lì che Lois Patiño lo ha plausibilmente immaginato ed è lì che in tutta onestà dovrebbe stare, la tela giusta per un quadro del genere, anzi per una serie di quadri del genere, non può che essere la superficie rettangolare circondata dal buio delle sale di proiezione. È un cinema immersivo quello proposto dell’autore spagnolo classe ’83 che già avevamo apprezzato nel precedente studio dal titolo Montaña en sombra (2012), l’impressione è che la ricerca di uno sguardo panottico, quasi divino, contribuisca ad innalzare il valore artistico, se non quello etico, del film stesso perché una visione così ampia nel senso spaziale del termine non può che farci sentire piccoli e doverosi di rispetto per un mondo che troppo spesso abitiamo senza neanche accorgercene. Patiño, come già aveva mostrato nel corto d’esordio, non è esclusivamente un regista di paesaggi, certo lo è, ma la componente umana possiede comunque un ruolo importante all’interno del suo ecosistema filmico e in Costa da Morte ciò è rimarcato da quello che può essere considerato un gioco percettivo in grado di fare leva sulla forza dei contrari: le persone sono così lontane eppure, al contempo, le sentiamo così vicine, udiamo i loro discorsi, perfino i loro passi, lo stratagemma, che non nega un evidente impulso finzionale, funge da amabile punto di contatto tra varie vastità, troppo facile pensare a quelle geografiche, più appagante allora concentrarsi su quelle temporali (suggestiva la messa in sequenza di un fiume nei suoi diversi stadi di piena) e su quelle storiche.

Infatti se il documentario ha un vero pregio (ne ha parecchi altri, ci mancherebbe) è la capacità di trovare nella contemplazione una via di trasmissione informativa, così del tratto di costa galiziano in oggetto possiamo ricevere una notevole quantità di notizie senza che si scada nemmeno per un secondo nella possibile didascalia, nell’illustrazione o nella prolissità gratuita. È una questione di molteplici verità (ma non del tutto, lo si diceva sopra) che si immettono nella progressione di panorami mozzafiato dove i fatti del passato legati alla guerra o a naufragi quasi dimenticati vengono rievocati con una carica che per poco non passa inosservata pur essendo pressoché imperitura. La veste dell’opera che potrebbe distrarre lo spettatore meno attento è in realtà una silenziosa cassa di risonanza (perdonate il trascurabile ossimoro) che dà voce in maniera non convenzionale agli abitanti di una zona all’estremo dell’Europa e, non di meno, alla zona stessa che comunica a noi con il mare, le rocce, le campane, gli alberi, la festa di paese, il cimitero, il fuoco di un incendio, dimostrando che sotto l’immobilità delle riprese c’è un organismo che vive e che non deve essere ignorato.

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