giovedì 22 agosto 2019

Vacanza permanente

Non si finisce mai di scoprire nel cinema, e così, dal nulla, emerge un tale Adolfo Arrieta che nel corso della sua sommersa carriera ha più volte modificato il proprio nome in calce ai film girati, i quali, a quanto si legge in giro, hanno certificato di come Arrieta non sia mai stato un personaggio dal curriculum “facile”, padre di una produzione che ha avuto un picco tra tra il ’72 e l’89 e che poi, complice l’avanzare dell’età, si è sempre più diradata almeno fino al recente Belle dormant - Bella addormentata (2016) che arriva a distanza di venticinque anni da Merlín (1991), nel mezzo una depressione artistica e alcuni oggetti non identificati in cui si iscrive a pieno titolo Vacanza permanente (2006), vero e proprio ufo che lascia interdetti: a parlarne male, che sarebbe la cosa più immediata da fare, c’è il rischio di dimenticarsi che ogni film di un’artista è la continuazione di quello precedente e pertanto, essendo il sottoscritto a completo digiuno nei confronti di Arrieta, sparare a zero potrebbe significare non avere rispetto di una veduta autoriale più ampia che si è protratta nel tempo, parimenti parlarne bene è un atto per niente facile perché pur avvertendo la presenza di un qualcosa dietro al flusso delle immagini, tradurre tale sensazione in parole congrue va al di là delle mie capacità interpretative.

Dopo essermi rifugiato in questa antitesi, credo che dentro Vacanza permanente si possa rintracciare dell’altro che non sia la sterilità di un atto artistoide. Probabilmente c’entra anche la biografia di Arrieta che prima del film aveva passato un brutto periodo personale, da qui il titolo, volutamente in italiano poiché parte delle riprese si sono svolte in Italia, che parrebbe darci una mano sul piano della comprensione; se si nota il rimbalzare apparentemente disomogeneo del regista avremmo con qualche sforzo, lo ammetto, anche un filo conduttore che va a situarsi nei momenti leggeri che la vita contempla, infatti il lavoro di Arrieta è modellato su un susseguirsi di parentesi amene riguardanti istantanee di persone che chiacchierano, che bevono ad un bar, che ballano in un locale, che si telefonano, è una specie di elogio del tempo libero, strano e ben poco costruttivo, che non dà di certo del tu allo spettatore, perché comunque la sua natura, plasmata in un digitale d’antan (l’unica copia rinvenibile in rete è un rippaggio di Fuori Orario), è un continuo sfuggire attraverso sembianze proteiformi che vanno dal film di montaggio (molte le sequenze di altre opere insertate nella proiezione, e se si tratti di roba appartenente al madrileno non lo possiamo sapere), al film casalingo (ritornano degli stralci domestici in cui Arrieta compare in carne [solo i piedi] e… materia grigia [un cervello, di plastica, come soprammobile]). Visione difficile dunque, al confine con l’arroganza para-intelletuale, cosa vuota ma con riserva, non si finisce mai di scoprire nel cinema, e ciò conforta sempre, e poi, anche se nulla c’azzecca, inaspettatamente il buio e un accendino riportano a Face (2009) di Tsai Ming-liang, è proprio vero allora che ogni film, e vale anche quando le menti che l’hanno creato sono diverse, è la continuazione di quello che l’ha preceduto.

3 commenti:

  1. credo di aver visto qualcosa di Adolfo Arrieta, tanto tempo fa, ricerco qualche corto in rete.

    buone visioni!

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  2. Ciao Ismaele, quanto tempo. Anche se i tempi, ormai, sono cambiati.

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