venerdì 15 marzo 2019

A Fold in My Blanket

Strano è strano questo Chemi sabnis naketsi (2013) del georgiano Zaza Rusadze, un film su cui forse ci sarebbe anche da ragionare sopra poiché il congegno che lo sorregge non è mica così stupido, quello che vediamo, infatti, potrebbe essere la versione di un Keyser Söze para-sovietico che però non vuole ingannare nessuno, a parte se stesso. Il condizionale è obbligatorio perché Rusadze non ha alcuna intenzione di far compiere un giro completo al proprio compasso e allora i cerchi si aprono per sovrapporsi, storie passate (dove erano finiti Dmitrij e Andrej da bambini?) si ripresentano (dove e se sono finiti da qualche parte adesso), la memoria è confusa (le uniche persone che Dmitrij indica come valide sono l’anziano nonno e una donna malata di Alzheimer), il ricordo è spezzettato (tanto quanto la riproposizione dell’entrata nella grotta, una scena di cui si intuisce l’importanza). Non so. Quello che so, perché maggiormente immediato, è che l’apparato estetico è strambo alla pari della storia in sé, ma in realtà il suo essere bislacco è dato dall’ordinarietà che lo permea, a volte il quadro visivo risulta piatto come quello di una sit-com televisiva, altre volte invece appare molto più dettagliato e adatto a palati più fini, Rusadze viola il tono classico con graffi che non capiamo ma che accettiamo (per dirne uno: l’asfalto invaso lentamente da un liquido scuro, e altri: la periodicità disorientante di talune immagini). La prima parola del paragrafo che avete appena letto: ricordatela.

Prima di provare a scavare più a fondo, va rimarcata anche una componente oserei dire politica che è riscontrabile nella pellicola, sebbene sia un elemento pressoché marginale è evidente che il regista voglia dirci qualcosa con quelle bandiere che sventolano dalle finestre dei palazzi. Anche se non esplicitato appieno l’aria oppressiva che spira è più di una brezza per i protagonisti della vicenda, a Rusadze non interessa edificare una chissà quale traslazione di un regime soffocante, si limita a disseminare un paio di informazioni qua e là, il che, comunque, sortisce degli effetti, più che altro perché pone un elemento di disordine all’interno del sistema, e qui arriviamo a quello che dovrebbe essere il cuore della questione: il rapporto tra i due ragazzi è così strutturato da minare l’equilibrio esistenziale di un tipico uomo-medio che vede la differenza da una realtà iper-controllata (se la bandiera è lisa arriva l’addetto a sostituirla) e monotona (il lavoro alla fotocopiatrice che “combatte” con le scalate) ad una in cui ci si può ribellare (l’aggressione di Andrej). L’impatto dell’amico ritrovato, che magari è anche più di un amico (giusto non dare risposta alla domanda del padre giudice nel finale), è la scintilla che dà origine ad un film che a sua volta si fa teatro mentale, probabilmente necessiterebbe di una seconda visione per assaporare i dettagli, già con una la sensazione è che vi sia del terreno fertile.

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